La questione agraria
( « Il Comunista » n. 35 del 5 giugno e n. 44 del 21 luglio 1921 )
Sommario :
La produzione agraria nell’epoca del capitalismo industriale
La trasformazione dell’azienda agraria può esaurirsi in regime borghese?
Lo sviluppo dell’economia agraria dopo la rivoluzione proletaria
La tattica del partito comunista tra i lavoratori della terra
Esso non ha pretesa alcuna di ordine scientifico, dal punto di vista economico o sociologico: si tratta di uno scritto polemico a cui si è dato un ordine espositivo a scopo di propaganda, senza pretesa alcuna di dire cose originali, ma solo per ristabilire nei veri termini dei suoi primi elementi il problema agrario in rapporto ai principi del socialismo marxista.
Limitandosi ad una esposizione generica ed elementare che valga tuttavia a scartare e confutare numerosi pregiudizi assai diffusi in materia, questo scritto lascia da parte un esame particolare della situazione agraria italiana, compito più complesso a cui il Partito Comunista deve ampiamente dedicarsi, e al quale i compagni di tutte le plaghe d’Italia dovrebbero recare un contributo di conoscenze e di esperienze, augurandoci noi di aver loro fornito attraverso queste paginette una guida iniziale per mettere i fatti e i dati molteplici di una tale quistione nella giusta luce dei nostri principi.
Volendo discutere dei compiti della dittatura del proletariato nel campo dell’economia agraria, e del lavoro dei partiti comunisti in mezzo alle masse dei lavoratori agricoli, è indispensabile fissare i caratteri del trapasso dal sistema di produzione capitalistico a quello comunistico in quanto si applicano all’agricoltura; e bisogna cominciare dal fissare bene quali sono questi caratteri nel quadro generale della concezione comunista marxista, anche nel caso tipico della produzione industriale. Crediamo indispensabile prendere le mosse da questo punto fondamentale, trattandosi di camminare attraverso enormità di ogni sorta che in materia sono state dette e scritte dai socialdemocratici.
LA PRODUZIONE A TIPO CAPITALISTA
Un’enunciazione superficiale del socialismo o comunismo inteso economicamente è data dalla formula: passaggio dalla proprietà privata alla proprietà collettiva. Con maggiore precisione storica deve parlarsi di passaggio dalla proprietà capitalistica dei mezzi di produzione e di scambio alla loro gestione collettiva. Non ogni forma di proprietà privata è proprietà capitalistica; ed è solo la forma capitalistica di proprietà che ci presenta le premesse sufficienti per passare al socialismo, al comunismo.
Quali adunque sono quei caratteri che ci
consentono di definire un tipo di proprietà, e meglio diremo di produzione,
capitalistico? Ricordiamolo brevemente.
Alla base del sorgere della produzione industriale
capitalistica (di un capitalismo nel senso «commerciale» potremmo rinvenire i
caratteri in epoche molto più remote - e la storia orientale greca e romana ci
presenta fasi che potremmo addirittura definire imperialistiche, ossia
corrispondenti ai più recenti aspetti del capitalismo moderno, ma per il nostro
assunto non è il caso di considerare questo lato della questione: a noi importa
definire il tipo della «intrapresa» produttiva capitalistica), troviamo una
trasformazione essenzialmente tecnica delle risorse produttive. Prima i
progressi della meccanica e la costruzione delle macchine, poi la scoperta
della utilizzazione delle ingenti forze motrici fornite dal vapore e
dall’elettricità, ci pongono dinanzi al principio del «lavoro associato», ed in
altri termini della «divisione del lavoro» applicati alla fabbricazione degli
articoli manufatti.
Fino a quando i mezzi tecnici per produrre gli
svariati articoli necessari agli uomini che la natura non offre direttamente,
fino a quando i processi trasformativi delle materie prime sono allo stato
rudimentale, e gli utensili a ciò adoperati sono di poco valore ed atti ad
essere adoperati da un solo o pochissimi lavoratori, sopperendo con l’abilità
nell’arte alla deficienza di essi, noi non vediamo sorgere il lavoro associato.
L’»intrapresa» che produce scarpe, vestimenta, veicoli, ecc. ecc., è la piccola
bottega del maestro artigiano nella quale egli si fa aiutare da pochi garzoni,
più che altro allo scopo di tramandare le risorse della sua tecnica, e quasi
sempre ai soli membri della sua famiglia. Ma quando la tecnica offre le nuove
risorse produttive date dalle varie macchine utensili, dai telai, ecc., e poi
dalle possenti macchine motrici che azionano a decine e centinaia le prime,
allora risulta enormemente più conveniente dal punto di vista della intensità
della produzione, della sua regolarità, se non della sua perfezione, della
economia del lavoro ad essa destinato, il sistema della produzione in comune,
in grandi stabilimenti in cui moltissimi lavoratori sono adunati, e ciascuno
adempie date mansioni. Le maestranze si specializzano; l’articolo non passa
tutte le fasi di manipolazione tra le mani dello stesso artigiano, ma è
affidato a molti operatori successivi, ognuno specializzato nell’avvalersi di
dati utensili, di date macchine più o meno complicate, ma facili a essere
dirette dalla mano dell’uomo.
Non dobbiamo qui seguire nei suoi dettagli questo
processo; ma ricordare che allora siamo in presenza di produzione capitalistica
quando questo processo tecnico è compiuto. Poiché contemporaneamente una vera
rivoluzione è avvenuta nei rapporti di proprietà. Col vecchio sistema
dell’artigianato ogni lavoratore era proprietario degli arnesi che gli
occorrevano, era in grado di procurarsi le limitate quantità di materie prime
che gli abbisognavano, e restava quindi padrone ed arbitro dei prodotti del suo
lavoro, che egli smerciava ritraendone per sé il valore.
Avvenuta la trasformazione tecnica, trasformati
alcuni degli antichi maestri in industriali, una parte di essi, ed i loro
antichi garzoni, in operai salariati, i rapporti economici sono divenuti
diversissimi. Il lavoratore non vede che in una fuggevole fase il prodotto
dell’opera sua; egli non è il proprietario dei complicati e costosi meccanismi
tra cui vive; egli non ha alcun diritto di disporre dei prodotti del lavoro suo
e dei suoi compagni.
Mentre a ciascuno dei lavoratori che prendono
parte alla produzione viene dato un salario in denaro, i prodotti sono di
esclusiva appartenenza del «proprietario» dell’intrapresa, dello stabilimento,
delle macchine, degli stock di materia prima occorrente che egli provvede ad
acquistare.
Non è nemmeno nostro assunto sviluppare la
dimostrazione che questo sistema dà luogo ad uno sfruttamento dei lavoratori,
ad una appropriazione di una quota del loro lavoro da parte dell’industriale,
rappresentata dal guadagno che questi trae dalla sua azienda, mentre nel caso
tipico egli non vi reca alcun contributo positivo alle attività produttrici.
Importa stabilire - cioè ricordare - come quel
principio uscito dalla rivoluzione tecnica, di associazione e specializzazione
del lavoro, si traduce nel campo economico nel fatto della «appropriazione
privata del prodotto del lavoro associato» da parte dei capitalisti detentori
dei mezzi di produzione. Questo concetto economico è quello che per noi
definisce di massima il tipo capitalistico di produzione.
Deve passare in seconda linea il fatto giuridico
della proprietà dell’azienda, della fabbrica. Il cardine del privilegio
capitalistico sta in quest’aspetto economico del suo diritto astratto di
proprietà sulle cose che non si trasformano nel processo produttivo, ma sono i
mezzi della trasformazione che ci conduce al prodotto consumabile; nella
disponibilità cioè «dei prodotti del lavoro associato» da parte di uno solo o
dei pochissimi cui l’azienda appartiene.
Notiamo, per chiarire la distinzione, che
l’azienda è un concetto immateriale, in quanto il proprietario dell’azienda
potrebbe non esserlo dell’impianto di essa (fabbricati, macchine, ecc.) e
quindi il suo diritto si traduce appunto sostanzialmente nella proprietà dei
prodotti usciti dal lavoro di molti e molti uomini. Quindi l’espressione
consueta «proprietà privata dei mezzi di produzione» si traduce con molta
maggiore chiarezza nell’altra: «appropriazione privata dei prodotti del lavoro
associato».
DALLA
PRODUZIONE CAPITALISTICA AL SOCIALISMO
Se il nostro socialismo è il comunismo critico di
Carlo Marx, e non l’infantile utopismo di Tommaso Moro o di Saint-Simon, è
solamente quando siamo giunti alla presenza di questa forma moderna di
produzione capitalistica che noi possiamo parlare della «possibilità» di
collettivizzazioni, di socializzazioni. Ancora una volta, il socialismo non può
avere una formulazione etico-giuridica, ma deve essere un concetto
economico-storico. I socialisti, i comunisti, sono coloro che mirano ad abolire
la proprietà privata, a mettere tutti i beni in comune? Ciò può forse passare
come formulario di propaganda, ma è formulario inesatto e che può generare
equivoci gravissimi. Anche la bottega dell’artigiano era di proprietà privata;
ma la proposta di collettivizzazione di essa non avrebbe senso alcuno, e se
anche non cadesse per ragioni di anacronismo, non reggerebbe ad un superficiale
esame inteso a vedere se affidando quella azienda alla gestione della
collettività potrebbe sorgerne per questa un rendimento maggiore.
Nella produzione artigiana il lavoratore non è
ancora diviso dagli strumenti della produzione, e perciò stesso non è diviso
dal prodotto. Non vi è che una appropriazione privata del prodotto del lavoro
privato, in minima misura «lavoro altrui».
Quando la produzione capitalistica stacca il lavoratore dal possesso degli strumenti e dei prodotti del suo lavoro essa crea le condizioni di una rivoluzione economica, perché nella sua sempre maggiore estensione, crea condizioni di oppressione e di miseria per coloro che reggono tutto il peso della macchina sociale e ne sono i reali conduttori, avendo sulle loro spalle una minoranza di parassiti. Il socialismo è la formula risolutiva di queste contraddizioni proprie di una data epoca storica, la nostra.
Esso vuole abolire dunque la separazione del
lavoratore dallo strumento di lavoro e dal prodotto, ma vuole e deve abolirla senza
intaccare quella che è la reale conquista dei progressi della tecnica:
l’associazione e la specializzazione del lavoro. Esso si formula così
nell’obiettivo ultimo: tutti i prodotti del lavoro associato, non più ai
privati, ma alla collettività, per la equa loro distribuzione a quelli che
hanno effettivamente concorso a produrli. Abolizione dunque della proprietà
privata, in quanto però essa abbia raggiunto questa forma speciale della
proprietà capitalistica, ossia di aziende che inquadrino l’opera di molti
produttori, e quindi più propriamente: abolizione della appropriazione privata
dei prodotti del lavoro associato, socializzazione dei prodotti del lavoro
associato, socializzazione delle aziende capitalistiche di produzione.
La forma economica della società socialista è
dunque la gestione da parte della collettività di tutte le aziende in cui si
esplica lavoro associato e specializzato, poiché allora soltanto esiste la
convenienza di costruire il nuovo apparecchio economico che sostituisce
l’esercizio da parte della collettività all’esercizio da parte
dell’intraprenditore privato.
Alla produzione per imprese private, infatti,
corrisponde un sistema di circolazione delle materie prime e dei prodotti
basato sul libero commercio e sulla convenienza che ha ogni azienda di trovare,
per acquistare e per vendere, le condizioni di tempo e di luogo più favorevoli.
Se il socialismo della produzione è l’abolizione della disponibilità privata
dei prodotti, la sua ripercussione nella distribuzione è l’abolizione del libero
commercio dei prodotti, la cui distribuzione si fa centralmente da organismi
che regolano la produzione al bisogno collettivo. Questa rete di distribuzione,
per potere essere realmente vantaggiosa rispetto al libero commercio, non deve
avere ad occuparsi di una miriade di piccoli centri di produzione di minima
potenzialità, ma deve avere come base l’accentramento già avvenuto delle grandi
forze produttive nei grandi impianti della moderna industria capitalistica.
S’intende che l’esercizio collettivo si estende
logicamente ad altre intraprese che non hanno l’aspetto immediato di
confezionamento di prodotti, ma in cui è vastissima l’associazione e la
specializzazione delle attività singole, come i pubblici esercizi, molti dei
quali non si concepiscono nemmeno in regime borghese come imprese private.
S’intende che quando il tipo della grande produzione industriale domina
l’economia spingendo al massimo tutte le sue conseguenze di sfruttamento e di
parassitismo nel campo bancario e finanziario, esiste la maturità economica di
condizioni generali per la socializzazione delle attività fondamentali
economiche.
Non si discute qui dei metodi per giungere alla
trasformazione economica (per noi consistenti unicamente nella rivoluzione
politica che instauri la dittatura proletaria). Ma, anche quando la
socializzazione delle grandi aziende sarà in atto, essa si arresterà
logicamente dinanzi alle piccole aziende che fino ad allora fossero
sopravvissute allo sviluppo del capitalismo, sia per loro speciali caratteri tecnici,
sia per condizioni arretrate di qualche paese o provincia. Nessuna convenienza
avrebbe la collettività proletaria ad addossarsi la gestione di queste piccole
intraprese, da cui non si determina sfruttamento di manodopera, che
ingombrerebbero inutilmente il lavoro formidabile dei nuovi organi economici.
Però la socializzazione delle aziende importanti accelererà in genere talmente
lo sviluppo del processo produttivo che non tarderanno le piccole aziende ad
essere assorbite dalle nuove forme razionali che essa creerà.
In ogni modo la sopravvivenza di piccole aziende industriali dopo la conquista del potere da parte del proletariato, non solo non intaccherà il dominio della società da parte della classe lavoratrice, politicamente assicurato, ma non potrà nemmeno essere invocato come una mancata applialistica di produzione, e per la parte dell’economia in cui questa forma non ancora esiste, né si potrà applicare una collettivizzazione meccanica, né tanto meno attendere che tutta l’economia sia capitalisticamente formata, ma lasciar sopravvivere queste forme non capitaliste, finché spariranno di fronte alle forme comuniste, uscite dalla socializzazione di quelle capitalisticamente mature per la trasformazione economica da intrapresa privata ad intrapresa collettiva.
LA PRODUZIONE AGRARIA NELL’EPOCA DEL CAPITALISMO INDUSTRIALE
Dopo questa esposizione cui abbiamo dato
volutamente forma schematica al solo scopo di porre in chiara evidenza i
concetti fondamentali del trapasso economico al socialismo, passiamo a
considerare gli aspetti generali del problema agrario, con l’obiettivo del
resto di fare anche qui opera di sgrossamento preliminare del problema a scopo
di propaganda, di dissipare equivoci fondamentali e non di esporre cose nuove o
peregrine. Se noi cercassimo il tipo di produzione agricola corrispondente alla
produzione artigiana nel campo industriale, ci si presenterebbe subito la
piccola proprietà rurale. Il piccolo contadino, possessore delle quattro spanne
di terra che è capace di lavorare, coll’aiuto della sua famiglia, possessore
dei pochi e semplici arnesi occorrenti alle forme primordiali di coltura che
possono applicarsi su spazio così limitato, è poi il padrone assoluto dei
prodotti, e può venderli come creda, devolvendone una prima parte alla sua
diretta consumazione domestica.
Tuttavia da tempo immemorabile esiste dovunque, a fianco della piccola proprietà, la grande proprietà terriera, con forme svariatissime di rapporti economici tra i proprietari e i lavoratori che sono addetti alle loro aziende. Questo solo fatto dimostra l’errore colossale che si commetterebbe qualora, dal paragone fra artigianato e piccola proprietà rurale, si volesse passare a quello tra grande industria e grande proprietà agraria in generale. Nell’avvertire i caratteri della grande industria abbiamo fatto notare come non sia sostanziale quello della proprietà giuridica dell’azienda, ma quello dell’impiego di superiori risorse tecniche e della specializzazione del lavoro. È per questo che la grande azienda industriale è una formazione recente, necessariamente successiva all’artigianato, uscita dallo sviluppo tecnico di questo. Ciò non si trasporta necessariamente nella considerazione della grande proprietà agraria. In essa il processo produttivo non è necessariamente più perfezionato che nella piccola proprietà, e le forme tradizionali di grande proprietà agraria non offrivano specializzazione tecnica delle funzioni colturali. Da cui la loro diversa origine ed apparizione storica. Il sorgere della grande industria è un fatto di organizzazione e di esperienza tecnica. La grande industria può concepirsi solo quando esistano certi procedimenti meccanici produttivi: la grande proprietà agraria può aversi anche in un paese dove non ancora si sia appreso a trarre dalla terra coll’arte frutti diversi e maggiori da quelli che spontaneamente reca. Il paragone è dunque impossibile.
Mentre nel campo industriale la esistenza dell’appropriazione dei prodotti di un lavoro collettivo è condizione sufficiente pel passaggio alla gestione collettiva, poiché vi è la specializzazione del lavoro, altrettanto non è nella grande proprietà rurale. Qui vediamo un proprietario «sfruttare» bensì moltissimi lavoratori, ossia trarre un guadagno dall’appropriazione di tutti o parte dei prodotti che essi traggono dalla terra, ma senza che per questo debba necessariamente esistere la specializzazione, la divisione delle funzioni tecniche. Vi è un lavoro collettivo, ma non un lavoro «associato».
Una parte del fondo potrebbe rendere, comunque staccata dalle altre - mentre non è così nell’impianto industriale che forma una unità produttiva, inscindibile nei vari suoi reparti, ognuno egualmente necessario alla completa elaborazione di uno solo degli articoli fabbricati. La grande proprietà rurale non è nemmeno quindi necessariamente una grande «azienda», se al concetto di azienda integriamo quello di unità produttiva.
Non essendo necessario, perché uno solo sfruttasse
il lavoro di molti, l’unità tecnica organica della produzione, che sorge solo
da speciali progressi della tecnica, lo sfruttamento agricolo è molto più
antico di quello industriale capitalistico; fino al Medio Evo e a gran tratto
dell’età moderna in molti paesi, la classe veramente sfruttata doveva cercarsi
solo nelle campagne. I rapporti di sfruttamento, di appropriazione del lavoro
collettivo altrui vi erano svariatissimi, e giungevano alla «servitù della
gleba» che legava il contadino alle zolle dove era nato e al servaggio al suo
signore feudale.
La rivoluzione borghese, di cui la esplicazione
nell’economia industriale è il passaggio dall’artigianato alla grande
industria, soppresse nelle campagne queste forme giuridiche di sfruttamento,
applicando esteriormente all’economia agraria le stesse norme di diritto che
facilitavano lo svolgersi dell’economia capitalistica, garantendo la libertà di
commercio e di lavoro. Senza indugiarci su ciò, troviamo nella presente epoca
capitalistica borghese sparite o quasi le forme di servaggio feudale, e
sostituite da una grande molteplicità di rapporti nell’economia agricola.
Per distinguere piccola e grande azienda non basta
attenersi all’indicazione giuridica delle mappe catastali; per seguire lo
sviluppo della tecnica produttiva e dei rapporti sociali tra gli strati della
popolazione agraria sarebbe grandemente erroneo soffermarsi solo
sull’estensione dei fondi.
Non è possibile dire che l’epoca capitalistica segni un’eliminazione della piccola proprietà rurale assorbita nelle grandi imprese come avviene nell’industria e nel commercio, come non è possibile dire che essa segni un frazionamento degli antichi latifondi, né vedere in questo secondo processo, dove esso avviene, un indice contrario all’evoluzione in senso socialista, se non si introduce chiaramente la distinzione tra la tradizionale grande proprietà e la moderna grande azienda agraria, che si potrebbe chiamare agrario-industriale, la cui apparizione per riflesso dei procedimenti meccanici segue da lontano il sorgere delle grandi aziende industriali.
L’EVOLUZIONE DELL’INTRAPRESA AGRARIA
Lo sfruttamento delle risorse produttive del suolo rimonta a tempi immemorabili ed ancora oggi non differisce sostanzialmente nei suoi procedimenti fondamentali da quanto ricordano le storie.
Esso comincia appena adesso ad essere influenzato dai perfezionamenti derivanti dall’applicazione dei moderni ritrovati scientifici, sui quali quasi esclusivamente si fonda l’attività della produzione industriale.
L’applicazione delle forze meccaniche ai lavori
agricoli, i metodi di concimazione chimica, l’applicazione dei potenti mezzi di
cui dispone l’ingegneria moderna alle bonificazioni, alle sistemazioni dei
terreni di montagna e di collina, alle irrigazioni, non sono entrati nella
pratica che negli ultimi decenni, e devono ancora considerarsi come sistemi che
non hanno vinta la concorrenza di quelli tradizionali, mentre può dirsi che la
grande industria abbia definitivamente battuto l’artigianato. La maggiore
difficoltà di affermazione delle applicazioni della tecnica moderna
all’agricoltura ed alle industrie agrarie sta nella semplicità ed economia dei
vecchi mezzi, che fondandosi su di una semplice stimolazione delle attività
produttive naturali del suolo - che l’arte non è ancora certo sulla via di
moltiplicare indefinitamente - rendevano minime le occorrenti spese d’impianto,
d’attrezzaggio, l’esperienza tecnica dei coltivatori, in quanto questa si
riduceva alla pratica manuale e tramandata facilmente di padre in figlio.
La moderna azienda agraria non è ancora dunque la
regola della produzione agricola, nemmeno nei paesi più progrediti. Ragioni
inerenti alla stessa natura della economia capitalistica impediscono la sua
diffusione, anche dove essa risponde all’interesse collettivo. È indubitato che
coi procedimenti della moderna tecnica agraria la terra renderebbe di più, ma
ciò richiede non solo il possesso della terra, bensì l’investimento di vasti
capitali privati, i quali preferiscono gli investimenti industriali, bancari,
speculativi, per il più alto profitto che porgono.
Inoltre vi sono delle circostanze di fatto che
rendono impossibile l’applicazione delle moderne risorse alla terra, almeno
fino a quando lo sviluppo industriale non abbia raggiunto una grandissima
intensità e grandiosità: la configurazione naturale del terreno nei paesi di
collina e montagnosi, il difetto di viabilità e di ferrovie, la distanza dai
centri industriali, la mancanza di combustibili, di grandi impianti elettrici
colle loro reti di distribuzione, infine la stessa deficienza di personale
scientifico e tecnico; tutti elementi che solo il lavoro di intere generazioni
potrà formare.
Laddove queste condizioni per uno sfruttamento
razionale della terra si sono realizzate, laddove si dispone di macchine,
fabbricati, forza motrice, acqua, personale ben preparato, ecc. ecc., è fatto
indiscutibile che si determina la superiorità della grande azienda, anzi è solo
nella grande azienda che si possono con conveniente rendimento applicare quei
costosi perfezionamenti. Poiché è appunto la divisione, la specializzazione del
lavoro che interviene. Come nell’industria questa porta seco la necessità delle
unità produttive che impiegano numerosi lavoratori e preparano masse imponenti
di prodotti, così nell’agricoltura tutte quelle risorse possono essere
utilizzate solo da vaste intraprese, che abbiano molto personale, che diano
grandi quantità di prodotti, e che naturalmente, pur aumentando l’intensità
della popolazione lavoratrice agricola ed il prodotto per unità di superficie,
comprendano grandi estensioni di territorio da sfruttare.
Questo tipo di unità produttiva rurale, che non è, come dicevamo ed è ancora lungi dal divenire, la regola, è il solo che può confrontarsi economicamente colle grandi aziende industriali moderne, perché ne raccoglie i caratteri sostanziali: la specializzazione del lavoro e l’associazione dell’opera di molti lavoratori, nonché l’appropriazione dei prodotti da parte dell’intraprenditore, poiché in tal caso i lavoratori addetti all’azienda divengono semplici salariati compensati in tutto o in parte grandissima in denaro. Questi salariati agricoli sono a loro volta separati dagli strumenti del loro lavoro, il cui valore è l’equivalente di grandi capitali superanti lo stesso valore della terra, e sono privi di qualsiasi diritto sulla disponibilità del prodotto.
Queste grandi aziende, adunque, mentre tendono a
dilatarsi assorbendo le piccole che esistono nelle stesse località e nelle
stesse condizioni fondamentali, effettivamente col loro ingrandirsi e
complicarsi, perfezionandosi danno l’indice di uno sviluppo che aumenta le
premesse della collettivizzazione di esse. Queste aziende sono quelle pronte
per l’esercizio da parte della collettività che a simiglianza di quanto sarà
per l’industria, subentri al posto dell’intraprenditore privato.
Nel determinare la possibilità del trapasso dalla
gestione privata a quella collettiva, abbiamo dunque razionalmente esaminato i
caratteri dell’intrapresa, e non la sua materiale estensione. È bene parlare,
se si vuole essere precisi, non del problema della collettivizzazione «della
terra» ma di quello della collettivizzazione dell’azienda agraria, per
sgombrare il terreno da una serie di confusioni su termini elementari ed
iniziali di esso.
Definita così la grande azienda agricolo-industriale, passiamo a confrontare con essa gli altri tipi di proprietà agraria, che non si possono classificare come piccola proprietà, ma che tuttavia non sono grandi aziende agrarie nel senso suesposto della parola, per vedere quali problemi essi ci presentino dal punto di vista del trapasso a un regime proletario e socialista.
LA GRANDE PROPRIETÀ AGRARIA TRADIZIONALE
Della piccola proprietà agraria abbiamo già fatto cenno, mostrando come possa sostanzialmente confrontarsi con l’artigianato per i rapporti tra il lavoratore e gli strumenti del suo lavoro ed i prodotti di esso, concludendo l’impossibilità, per l’inesistenza delle reali condizioni tecnico-economiche indispensabili, del diretto passaggio alla collettivizzazione.
Mano mano che la piccola proprietà, che è logicamente piccola azienda, si evolve verso la grande azienda moderna agricolo-industriale, si creano le indispensabili premesse della socializzazione, come è nelle grandi aziende industriali, essendosi sviluppati i necessari caratteri di specializzazione ed associazione del lavoro in grandi unità produttive.
Nella contemporanea epoca borghese esistono però su larghissima scala altre forme di proprietà agraria, svariatissime, che se hanno comune con la grande azienda l’estensione territoriale e l’appartenenza giuridica ad un solo proprietario, mancano di tutti i caratteri di una grande intrapresa basata sulla unità di produzione, e per il grado dello sviluppo tecnico delle risorse produttive hanno i caratteri della piccola azienda.
La distinzione tra i due tipi di grande proprietà a seconda che costituiscano o meno una grande azienda ad unità di produzione, benché nella realtà non possa valere come una classificazione assoluta ed escludere tipi di transizione, è importantissima per la chiara impostazione del problema che ci occupa, in quanto ci condurrà appunto alla conclusione che, se esistono in via di eccezione tipi di intrapresa agraria che hanno i caratteri misti dei due tipi fondamentali, non vi è però in linea generale una continuità «storica» di sviluppo, che assicuri la trasformazione diretta di ogni grande proprietà in una grande azienda moderna agricolo-industriale.
Passeremo dunque in rivista rapidissima le forme della «grande proprietà tradizionale» pregando il lettore di ricordare che il nostro intento non è quello di tracciare un quadro generale e preciso delle varie forme di esercizio della agricoltura conosciute, il che implicherebbe il richiamo di ben altri elementi tecnici, statistici, scientifici, ma solo di mostrare come si prospetti dal punto di vista marxista che ha una precisa e nota applicazione alla evoluzione della produzione industriale, il processo più complicato che presenta l’evolversi delle forme di produzione agraria.
Possiamo rammentare avanti tutto che esiste ancora
nell’epoca attuale la forma di grande proprietà agraria che attende ancora la
rivoluzione «borghese», cioè la proprietà feudale, diffusa fino a ieri in
Russia, di cui si incontrano le tracce nell’Europa sud-orientale e che domina
negli sterminati paesi dell’Asia, dove l’assenza di sviluppo industriale ci
pone in presenza di una classe dominante costituita dai grandi signori
terrieri, stretti generalmente con gli istituti dinastici e teocratici. La
condizione di sfruttamento dei lavoratori della terra è in tali casi
estremamente aspra e rasenta l’abbrutimento, mentre ultrarudimentale è la
tecnica con cui queste mandrie di oppressi traggono dal seno spesso feracissimo
per natura della madre terra i prodotti che sono arbitrio quasi esclusivo del
boiardo, del signore feudale. Al contadino e alla sua famiglia è data un’irrisoria
frazione dei prodotti di un pezzo di terra su cui lavora. Ma sostanzialmente, è
nel campo giuridico e non in quello economico la differenza dei rapporti di
sfruttamento del servo feudale e del lavoratore moderno della grande proprietà
non evoluta (colono, mezzadro o salariato come ora vedremo), o meglio la
differenza giuridicamente è qualitativa, economicamente è, in fondo,
quantitativa soltanto. Il contadino in regime feudale non può abbandonare colla
sua persona e la sua famiglia la terra su cui nacque, i suoi discendenti legati
da uguale servaggio al padrone e alla sua stirpe hanno un avvenire che
giuridicamente rassomiglia a quello degli antichi schiavi, materialmente è
peggiore, perché il lavoratore non è più un oggetto suscettibile di proprietà e
di valore commerciale, che si ha interesse a conservare, ma appartiene ancora
all’arbitrio padronale e lavora sotto la sferza dell’aguzzino e tutto deve al
suo signore, anche, talvolta, per riconosciuto diritto legale, la carne delle
sue figlie.
Dal punto di vista che ci interessa, cioè dei
rapporti tecnici economici (tacendo, per non deviare dall’oggetto, le richieste
giuridiche realizzate nelle rivoluzioni che affrancarono il servo, ma non
sempre lo trasformarono in piccolo proprietario, ciò che in quelle rivoluzioni
borghesi fu piuttosto il risultato di un lento processo ulteriore, dandogli
solo come risultato immediato quello di divenire un cittadino libero colla
abrogazione del diritto feudale), il regime che si riscontra nelle grandi
proprietà feudali non è che quello delle piccole intraprese, ciascuna
costituita dalla zona di terreno affidata ad questi spostamenti dei rapporti
giuridici non esigono premesse di ordine tecnico e conservano la piccola
azienda antiquata come tipo di intrapresa.
Aprendo una parentesi accenneremo anche alle forme
di possesso collettivo della terra da parte degli abitanti di una comunità (usi
civici italiani e di qualche altro paese europeo, mir russo). Queste
forme risalgono ad avanzi del cosiddetto «comunismo primitivo» reso possibile
da una tecnica ancora più rudimentale di quella delle piccole aziende, anzi
sostanzialmente dall’assenza di ogni applicazione tecnica continuativa. In esse
ognuno dei membri della collettività che ne fruisce non presta altra opera che,
in fondo, quella occorrente a raccogliere quanto vi è naturalmente germinato.
Queste forme «comunistiche» sono evidentemente separate dal comunismo, quale
sbocco della razionale applicazione all’agricoltura delle più elevate risorse
scientifiche, non da una ma da più soluzioni di continuità e fasi di evoluzione
tecnica e di rivoluzione dei rapporti giuridici. La loro tendenza a sparire
appena la stessa piccola azienda a conduzione diretta del contadino
proprietario si diffonde come risultato di una tecnica che ottiene dalla terra
maggior rendimento, può solo dagli ignoranti essere invocata come
un’indicazione di un’astratta superiorità, campata fuori dal tempo e dallo
spazio, dell’esercizio privato della produzione agraria.
Veniamo dunque, lasciato da parte l’esame dei
rapporti tra lavoratori e proprietari nelle forme che possiamo chiamare
pre-borghesi, benché la rivoluzione borghese non le abbia ovunque soppresse,
alle forme di grande proprietà agraria in cui i rapporti giuridici sono
pienamente corrispondenti ai criteri introdotti dall’epoca borghese, ma in cui
l’unità di produzione che abbiamo riscontrata nelle grandi aziende moderne non
è stata raggiunta.
La somiglianza tra queste grandi proprietà rurali
e la grande industria si riduce a questo: un solo (o un gruppetto) sfruttatore,
molti sfruttati. Ma non va oltre. Il proprietario non è giunto a costituire la
sua proprietà attraverso un processo di perfezionamento tecnico e di organizzazione
del lavoro con risorse ignote alle piccole aziende, ma per ben altra via
esclusivamente giuridica o commerciale. Molte volte esso non si reca nemmeno a
vedere la sua proprietà o ne conserva una parte per propria abitazione o
diletto. Il suo intervento nel processo tecnico è nullo o minimo, nella
amministrazione egli non ha altra parte, spesso affidata ad un suo stipendiato,
che assicurarsi l’impossessamento della gran parte di prodotto che gli spetta o
del loro valore.
La sua proprietà è generalmente divisa in piccoli
lotti affidati ciascuno ad una famiglia di lavoratori agricoli. Questi traggono
dalla terra i suoi prodotti col proprio lavoro, sono e non sono proprietari
degli arnesi indispensabili ed hanno col padrone svariati rapporti di diritto
sulla gestione degli altri capitali (scorte) indispensabili all’andamento della
produzione, come il bestiame, ecc. La parte di prodotto che spetta al padrone
gli è data o in natura, in base a certe produzioni variabilissime secondo il
luogo, le epoche e le diverse specie di prodotto («mezzadria» quando la
ripartizione avviene tra contadino e padrone in parti uguali) o in denaro, in
base ad un prezzo oscillante secondo certe circostanze e che dicesi affitto
(estaglio, ecc.). Nel secondo caso il contadino (che anche nel primo caso può
chiamarsi colono) prende la figura dell’affittuario. Considereremo il caso più
semplice e frequente che senza intermediari si passi dal padrone del suolo al
piccolo contadino che prende da lui tanta terra quanto all’incirca può coltivare,
servendosi della forza lavorativa della sua famiglia, e analizzeremo
rapidamente i rapporti economici che tra essi intercedono, in relazione al
fatto che il procedimento tecnico culturale, non essendosi perfezionato, ha
fatto rimanere, dentro la grande proprietà territorialmente e giuridicamente
considerata, il tipo di piccola azienda familiare analogo per estensione
dell’unità produttiva a quello della piccola proprietà. Abbiamo noi
specializzazione del lavoro agricolo? Non più di quanto ce ne presenti il
piccolo proprietario. Questo, come il piccolo colono, zappa, ara, semina, ecc.
Dunque non abbiamo associazione di lavoratori specializzati ed addetti ognuno
ad una branca del processo produttivo: i molti contadini compresi nella grande
proprietà che consideriamo sono accomunati dal solo fatto di essere sfruttati
dallo stesso padrone, ma la loro attività è produttivamente autonoma od ha la
possibilità di esserlo. Non vi è dunque unità produttiva in funzione. Il
proprietario è un appropriatore di prodotti altrui, specie nel caso della
somministrazione in natura di quanto a lui spetta, ma il suo rapporto con un
contadino è indipendente dal rapporto con l’altro; c’è una somma di diritti di
sfruttamento, non lo sfruttamento della posizione che deriva dall’aver
introdotto nuove applicazioni del procedimento tecnico, collocandosi allo
sbocco ultimo della produzione di una unione integrale di lavoratori associati,
come è nella grande intrapresa industriale o agricola.
Questo tipo di exploitation agraria, che è
poi di massima quello fondamentale, non è dunque più maturo della piccola
proprietà alla gestione, all’esercizio collettivo. Sostituendosi al
proprietario la collettività non potrebbe realizzare le condizioni di maggior
rendimento, che condannano la libera produzione dinanzi a quella centralizzata.
Sparito il proprietario, nulla resterebbe a cementare dal punto di vista della
produzione gli sfruttati di ieri; essi verrebbero ad essere divisi in tante
piccole aziende tecnicamente indipendenti, che non si potrebbero inserire nella
rete centralizzata di produzione e di distribuzione da costituire, come non
conviene inserirvi utilmente i mille piccoli ateliers dell’artigianato o
della piccola industria perché l’amministrazione dal centro di così piccole
unità produttive non presenterebbe il vantaggio che presenta quella delle
grandi intraprese avanzatissime sulla via generale dell’accentramento
economico.
Dal punto di vista della evoluzione sociale si
viene dunque a questa chiara conclusione, che le condizioni dello sfruttamento
della terra nel caso della grande proprietà tradizionale (ossia non raggiunta
dalle grandi innovazioni tecniche) sono assai più prossime a quelle della
piccola azienda che a quelle della grande azienda agraria industrializzata e
socializzabile.
DAL
LATIFONDO ALL’AGRICOLTURA INDUSTRIALIZZATA
Dobbiamo considerare la grande proprietà rurale cui abbiamo dato l’epiteto di «tradizionale» come un diretto derivato dal feudalesimo. Il servo affrancato ha conquistato, insieme alla libertà giuridica e politica, un maggiore diritto sui frutti del suo lavoro che seguita a svolgersi sulla stessa estensione. Il proprietario latifondista moderno in questi casi, o nei più caratteristici tra essi, conserva la figura economica del feudatario, ossia estorce un reddito senza nessun intervento attivo nel processo della produzione. È indubitato che oggi ciò è altrettanto vero per il grande industriale, ma alla base del diritto di questi al dividendo sta l’introduzione nel processo produttivo di innovazioni che la sua classe vi ha apportate, rivoluzionandolo totalmente. Egli inoltre sviluppa il suo parassitismo partecipando al gioco delle correnti centrali della vita economica, nella circolazione del capitale commerciale, bancario, ecc.
Il grande latifondista agrario resta passivamente immobile pago del suo reddito molto meno aleatorio, ed è per lo più privo di capitali industriali: se ne avesse, le leggi economiche li attirerebbero più verso intraprese industriali o di speculazione che verso la rinnovazione della tecnica agraria nei suoi possessi.
Vi sono al certo dei casi meno caratteristici in
cui i rapporti tra il grande proprietario e i suoi dipendenti si staccano
maggiormente da quelli feudali e, risentendo del generale ambiente del
commercio capitalistico, assumono forme che più ricordano il salariato come ce
lo presenta l’industria. Ai coloni, agli affittuari, si aggiungono e si
incrociano contadini salariati che lavorano «ad economia» in alcune branche più
perfezionate della produzione agraria; altre volte siamo in presenza di grandi
affittuari che subaffittano al piccolo contadino ed in parte eserciscono
direttamente la tenuta avvalendosi per aumentarne il rendimento di capitali
circolanti di cui spesso manca il primo proprietario. La produzione per piccole
aziende separate viene incrociandosi con l’organizzazione di unità produttive
per certe fasi del lavoro agricolo. Per esempio la tecnica delle «rotazioni» di
varie colture sullo stesso terreno verrebbe qualche volta ad indicare la
convenienza di alternare l’esercizio unito alla conduzione familiare.
Molte volte il gioco del commercio dei prodotti e
delle materie occorrenti (concimi, semenza, piccole macchine, ecc.), nonché le
prime necessità di una consulenza tecnica che ecceda la tradizionale pratica
del contadino, spingono gruppi di questi alla cooperazione, od anche
all’affittanza collettiva, ma quel mutuo appoggio commerciale è poco ancora per
poter parlare di una fusione delle singole aziende familiari in una unità
integrale produttiva, quale, ad esempio, ci presenterebbe una cooperativa di
operai industriali in possesso di uno stabilimento moderno.
L’analisi di tutti questi casi non sposterebbe le considerazioni fondamentali da noi svolte, e troppo lungi ci condurrebbe.
Possiamo, ci pare, dopo quanto abbiamo esposto, porci questa domanda: dato che indubbiamente il processo tecnico di sviluppo dell’arte del coltivatore conduce, colle applicazioni scientifico-industriali, verso le grandi unità di produzione rurale, partendo quasi generalmente dal latifondo feudale come si inserisce il sistema della piccola azienda nell’evoluzione di rapporti economici e giuridici che quel processo tecnico porta seco?
È logica la risposta, che molti socialisti orecchianti sono corrivi a dare, che, trattandosi di giungere alla grande azienda, si debba interpretare questo processo come ingrandimento delle dimensioni della proprietà, ed accogliere il frazionamento dei latifondi a cui ampiamente abbiamo assistito ed assistiamo come un processo in senso negativo, che ci allontana dalla meta?
L’inconsistenza di tale conclusione e la sua
superficialità, salteranno, noi speriamo, all’occhio del lettore che ci abbia
seguiti nelle conclusioni che precedono. Per le stessissime ragioni, abbiamo
visto, distano dal tipo della grande impresa agraria moderna, e dalla
possibilità della collettivizzazione, e la piccola proprietà e la tradizionale
grande proprietà. È possibile che in certi casi, la prima ci appaia più matura
e avanzata nel processo generale che la seconda? Indubbiamente.
Se, senza lasciarci accecare dalla deplorevole
confusione tra proprietà ed azienda, e dalla ridicola concezione di un
comunismo accumulatore meccanico, e non suscitatore dinamico delle più audaci
energie umane nella inesauribile dialettica del processo della storia, le cui
relazioni si rintracciano colla genialità del metodo di Marx nell’indagine dei
caratteri tecnici del processo produttivo, se noi cerchiamo di intendere il
grado di sviluppo tecnico nell’uno e nell’altro caso, il più delle volte la
risposta sarà sfavorevole per il latifondo, e questo ci potrà apparire più
lontano della piccola proprietà da quelle circostanze che daranno luogo alla
nuova agricoltura delle grandi intraprese razionali.
Quale è stata la spinta iniziale alla morte della
proprietà feudale? Ancora una volta le esigenze della tecnica produttiva,
l’insufficienza di una produzione agricola in cui il lavoratore non era portato
a perfezionare il rendimento della terra. Il contadino, disimpegnandosi dalla
soffocazione feudale, acquistata la possibilità di una limitata disponibilità
di denaro, poté cominciare a migliorare la sua piccola azienda. Migliori erano
le condizioni che otteneva come affittuario dell’antico signore, maggiore la
larghezza di mezzi e la buona volontà di introdurre perfezionamenti.
È perfettamente logica, anziché essere (secondo le
compassionevoli interpretazioni di certo socialismo da dottrinetta) conseguenza
di «pregiudizi», la tendenza del contadino a divenire proprietario della terra
su cui lavora. Quando domani tutto il prodotto sarà suo ed egli sarà sicuro che
un aumento di valore della sua azienda non potrà di un solo colpo rientrare a
vantaggio del padrone che non vi ha merito alcuno, egli porterà maggiore
attività nell’opera propria. D’altra parte chi offende questo trapasso, a cui
per esempio l’economia francese ha dovuto la sua floridezza e solidità? Non
certo l’astratto «interesse dei terzi», del pubblico, del consumatore, cui
tanto vale essere in contatto col grande che col piccolo produttore agricolo:
mentre ne è eliminato il parassitismo passivo del grande proprietario agricolo
realizzando la formula che al lavoratore vanno i prodotti del suo lavoro, come
la realizzava l’artigianato. Se noi vediamo nella grande industria una forma
produttiva più evoluta dell’artigianato, è perché essa sopprimendo nel
lavoratore la disponibilità degli strumenti e dei prodotti del lavoro, crea
però le superiori conquiste dell’associazione produttiva da cui si salirà al
possesso di «tutti» gli strumenti e i prodotti del lavoro da parte di «tutti» i
lavoratori, nel comunismo: benefizio che per il latifondo tradizionale non si
ha diritto alcuno di invocare.
Ritornando sul terreno dello sviluppo concreto
della tecnica e dell’economia agraria noi vediamo dunque che quando la grande
proprietà tradizionale si spezza, in generale la tecnica produttiva
progredisce, si introducono colture più intensive e differenziate, la zappa del
contadino pazientemente dirompe e feconda estensioni di terreno che al
latifondista conveniva o era giocoforza tenere a pascolo e a prato, le colture
arborate si diffondono, la pratica della concimazione e della lotta contro le
malattie delle piante si intensifica, ecc.
Tutte queste condizioni ci portano più vicino alla
possibilità del sorgere di grandi aziende razionali di quanto non ci
avvicinasse a ciò la materiale unità giuridica del grande possesso, che non
aveva altra influenza di quella sui tracciati delle mappe catastali, e
sull’impinguamento dei forzieri del padrone.
Senza escludere che sia possibile ed anche frequente
il passaggio dalla grande proprietà agraria, coll’introduzione di successive
migliorie e trasformazioni, alla tenuta moderna, (specie quando si cominci a
realizzare con industrie agrarie di sicuro successo, come l’allevamento del
bestiame, il caseificio, ecc.), si può però affermare che in moltissimi casi,
anzi nella maggioranza di essi, la pratica agraria non uscirà dalla sua stasi
medioevale senza che il grande corpo, anzi agglomerato senza vita, del
latifondo si risolva nelle feconde cellule della produzione a piccoli lotti.
Il processo che dalla piccola proprietà conduce
alla grande intrapresa non può svolgersi - a parte i suoi caratteri storico
sociali a cui subito passeremo - senza l’intervento decisivo di ritrovati
scientifici che le condizioni naturali rendano applicabili all’agricoltura in
modo da assicurare rapidamente la decisa loro superiorità sull’esercizio a
piccoli lotti. Malgrado le naturali difficoltà e le armi con cui ancora si
batterà la piccola azienda agraria, che se hanno aspetti psicologici, è in
relazione a circostanze tecniche ed economiche per cui l’esercizio
dell’agricoltura su limitate estensioni ha ben maggiore resistenza che il
piccolo esercizio della produzione di manufatti, malgrado ciò l’impulso dato
alla fertilità della terra dalle pur primitive risorse del piccolo proprietario
non potrà non svolgersi nell’affermazione di procedimenti ulteriormente evoluti
che spezzeranno il limite del piccolo campicello con la logica invincibile
della convenienza economica, vista in una luce sempre più collettiva.
Il duello si svolge in ben altro campo che in
quello dei motivi letterari e flebilmente retorici, ed è altrettanto sterile la
propaganda sentimentale dei fautori della pace arcadica e del domestico
focolare, quanto quella crassamente incosciente dei socialistoidi che
confondono la sottigliezza critica di Carlo Marx colla grossolana catena
dell’agrimensore.
LA TRASFORMAZIONE DELL’AZIENDA AGRARIA PUÒ ESAURIRSI IN REGIME BORGHESE?
Nessuno si sognerebbe di sostenere questa tesi: cmazione delle forme più arretrate in questa moderna.
Noi vogliamo per ora porre il problema in modo del
tutto obiettivo e indipendente anche dalla concezione rivoluzionaria
storico-politica nostra, la cui valutazione in rapporto al problema agrario
esamineremo più oltre. Sappiamo che vi sono «socialisti» che fanno colletta di
argomenti atti a dilazionare l’avvento del proletariato alla direzione della
società, a prolungare le prospettive di sopravvivenza dell’assetto borghese.
Noi dunque vogliamo porre il problema nel senso di chiederci se sia possibile
che, ammesso un ulteriore sviluppo del sistema economico capitalistico, possa
attendersi la totale trasformazione dell’intrapresa agraria nell’accennata
direzione.
Per stabilire che il trapasso «artigianato -
grande industria» e quello «proprietà agraria tradizionale - moderna intrapresa
agricola» non è il prodotto di una stessa epoca storica, basta ricordare che il
primo sta a cavalcioni della rivoluzione borghese, la quale non ha affatto
figurato come gerente del secondo. La rivoluzione che condusse la borghesia al
potere, se si accompagna, come riflesso nel campo politico, al nascere della
grande intrapresa industriale, dal punto di vista del problema agrario apparve
come il passaggio dalla proprietà feudale ai tipi di agricoltura più recente,
che abbiamo esaminati, ma che, nel caso sia della grande proprietà che della
proprietà frazionata, conservarono tecnicamente l’aspetto della piccola
azienda. A quest’epoca, generalmente parlando, mentre l’affermazione della
grande industria era un fatto compiuto nel senso che la superiorità di essa
sull’artigianato erasi definitivamente consolidata, cominciava appena una lenta
evoluzione della tecnica agraria che dava luogo alle tenute moderne tendenti alla
«industrializzazione». La vera applicazione alla terra delle forze motrici di
cui dispone la meccanica moderna è poi recentissima, e benché la pratica
dell’irrigazione, della bonificazione, della sistemazione montana dei terreni,
sia antichissima, pure è soltanto recente l’applicazione su vasta scala dei
mezzi tecnici che consentono di risanare e porre a coltura i terreni
naturalmente inadatti alla coltivazione. Altrettanto può dirsi della
concimazione chimica, della lotta contro le malattie, ecc. Le industrie che si
accompagnano all’agricoltura, anche quelle che come l’allevamento del bestiame,
la manipolazione dell’olio, del vino, dei bozzoli e via, sono antichissime,
solo ora prendono aspetti tecnici di grandi intraprese ad unità
tecnico-economica.
Il capitalismo sorge adunque come capitalismo
industriale. Le leggi del suo sviluppo lo cacciano su tutte le altre vie, anche
cieche, prima che su quella dell’investimento nelle grandi trasformazioni
agrarie. Ciò dipende dalla natura stessa del principio motore dell’economia
borghese attuale che non è l’interesse collettivo, ma la naturale tendenza al
profitto di chi dispone di capitali. L’investimento di vaste risorse
finanziarie nelle trasformazioni della tecnica agraria è per una serie di
ragioni di rendimento scarsissimo. I lavori di preparazione durano vari anni,
prima che sia possibile, nel caso delle grandi innovazioni, risentire gli utili
effetti di essi. In molti casi bisogna concedere alla terra un periodo di
passività, ed intanto bisogna garantire al proprietario l’equivalente delle sue
rendite. A ciò si aggiunga che in parte a causa di pregiudizi e diffidenze, ma
anche per lo sviluppo non ancora sicurissimo della teoria e della tecnica
agraria, si teme che lo sfruttamento intensivo ed artificiale delle risorse del
suolo determini successivi periodi di sterilità e di forzata inattività del
suolo e con questo di immobilizzamento degli ingenti capitali dedicati a
trasformazioni su di esso. Infine la concorrenza coi prodotti della piccola
produzione tradizionale si presenta, dal punto di vista del guadagno in base al
capitale investito, sfavorevole, sebbene sia maggiore il prodotto per eguale
superficie, e ciò naturalmente in dipendenza del minor valore della proprietà
terriera non ancora corredata di macchine, impianti, fabbricati ed altri
costosi accessori.
La nuova agricoltura moderna, si è dunque potuta
affermare solo nelle zone in cui particolari condizioni la favorivano: ciò
dimostra che essa non è e non diverrà la regola se altre condizioni non si produrranno.
Essa si è affermata quasi esclusivamente nei paesi a terreno pianeggiante, il
cui sviluppo di industrie e di mezzi di trasporto è molto avanzato, dove è
possibile avere facilmente e con poca spesa l’acqua necessaria alle colture più
redditizie. Le condizioni sono molte volte contraddittorie; molte delle grandi
pianure del pianeta sono desertiche o semidesertiche, altre sono acquitrinose e
difficilmente risanabili. Certe colture di alto rendimento economico, come la
vite, l’ulivo, le piante da frutto, ecc., spesso si adattano meglio ai terreni
collinosi e talvolta rocciosi, a cui l’estensione dei metodi della grande
tenuta è impossibile; ed anche questo concorre ad assicurare una superiorità
alle piccole imprese agricole rispetto alle grandi tenute industrializzate e da
industrializzare.
Per tutte queste ragioni che confusamente
accenniamo, anche chi voglia destinare una certa somma ad investimenti agricoli
troverà maggiore convenienza, in linea generale, a comprare terra ed affittarla
o altrimenti esercirla senza preoccuparsi di grandi innovazioni, che ad
intraprendere la fondazione di grandi aziende razionali.
L’aumento di richiesta dei prodotti della terra
conseguente dovunque all’aumento della popolazione e del suo grado di
alimentazione, date le assurde contraddizioni dell’economia capitalistica, non
tende a condurci ad una intensificazione su vasta scala del rendimento
agricolo. È troppo facile quando i prezzi salgono realizzare grandi guadagni
con sistemi rudimentali di coltura, perché i produttori che vogliono
prontamente speculare sulla richiesta abbiano interesse ad ingolfarsi nelle
lunghe intraprese di miglioria. Molte volte le oscillazioni del mercato
agrario, nelle quali si risente al massimo l’influenza disorganizzatrice del
sistema capitalistico nei suoi riflessi commerciali e speculativi, colle
prospettive di profitti che aprono, determinano la sostituzione di colture più
utili e differenziate con altre più facili e tecnicamente arretrate, ed in
genere influiscono su di una irrazionale utilizzazione della fecondità del
suolo. Poiché la terra non è una fabbrica o un’officina che senza grande
pregiudizio del suo potere di rendimento può stare inerte od intensificare la
sua attività, o alternare a volontà le funzioni dei suoi reparti, ma dovrebbe
in un sistema razionale essere coltivata con criteri che abbraccino un lungo
periodo di esercizio e tutto l’insieme del processo di miglioramento delle
risorse di una intera regione, un aperto contrasto si stabilisce tra il
progresso tecnico dell’agricoltura e quindi la maggiore produzione di derrate e
il gioco delle spinte economiche derivante dall’ambiente di speculazioni e di
tranelli del commercio capitalistico.
Volendo ridurre questa indagine, che sarebbe cosa
interessantissima affrontare in modo più sistematico, ad una espressione
semplicista ma sintetica, basta ricordare ciò che a tutti è noto: che sebbene
l’umanità sia insufficientemente alimentata, il produttore agrario teme le
annate di eccessivo prodotto spesso più di quelle di cattivo raccolto per
conseguenza del decrescere dei prezzi che nel primo caso si determina.
Si è sulla soglia, all’attuale grado di sviluppo
della scienza e della tecnica agraria, di poter applicare all’agricoltura
sistemi che ne accrescano grandemente la produttività. Ma l’aver risolto il
problema tecnico non vuol dire averne risolto il lato economico, poiché nei
quadri del capitalismo e della libertà di produzione e di commercio che lo
definiscono, non esiste la possibilità di un’applicazione su scala grande di
quelle nuove risorse. D’altra parte lo sviluppo della tecnica industriale e
delle sue basi scientifiche è stato suscitato dalla grande convenienza per i
capitalisti di realizzare innovazioni nel processo produttivo; non esistendo un
eguale incentivo, ne risulta di riflesso una spinta minore ai perfezionamenti
della tecnica agraria, che in sostanza attendono ancora l’epoca delle grandiose
loro affermazioni.
La guerra ha accentuate queste circostanze. Mentre
essa stimolava al massimo la funzione dei grandi impianti dell’industria,
toglieva soprattutto all’agricoltura le braccia dei lavoratori. La diminuita
possibilità di produrre e il rialzo dei prezzi delle derrate rendevano di colpo
enormemente redditizia la più arretrata forma di azienda agraria. I capitali,
sebbene divenuti meno mobili, si riversavano sempre più nelle industrie volte
in massima parte alla produzione di materiale bellico, e in tale campo si
concentravano anche le risorse ed i miglioramenti tecnici. Nessun speculatore
privato poteva avere interesse a darsi a intraprese agrarie, anche perché la
instabilità della situazione spingeva ad investimenti di gettito sicuro ed
immediato anziché ad imprese lunghe nei loro effetti e complesse.
La situazione del dopoguerra è non meno
sfavorevole alle innovazioni nel campo dell’agricoltura. Basti pensare al costo
enorme delle macchine, dei fabbricati, dei lavori in genere; basti, senza qui
abbordare il vasto problema generale della crisi economica postbellica,
considerare che la tendenza alla diminuzione del costo dei prodotti
industriali, dei fabbricati, della mano d’opera, non appare nemmeno ai più
ottimisti borghesi come il preludio di un ristabilimento di condizioni normali
da cui si possa attendere una ripresa di attività, e tra queste delle
intraprese di miglioramento agricolo.
Se la critica marxista, applicata ai domini della
produzione industriale, del commercio, della finanza, dimostra che esiste ormai
una contraddizione insormontabile tra l’interesse collettivo e quello dei
monopolizzatori della ricchezza e detentori del capitale, ma questa
contraddizione appare dopo lo sviluppo completo della grande intrapresa
industriale e quando questa domina tutto il campo dell’economia, la
contraddizione tra interesse dei proprietari e miglioramento generale della
produzione agricola è ancora più evidente e ci si presenta proprio nella fase
iniziale del processo che conduce alla diffusione della grande intrapresa atta
ad essere socializzata. L’intervento della collettività nell’amministrazione
della produzione e della distribuzione si impone per risolvere questi problemi,
ma mentre ciò diviene evidente nel campo industriale ad un grado di sviluppo
che già ha raggiunto la prevalenza delle grandi unità produttive, per
l’agricoltura quella necessità si presenta prima di tale fase e proprio per
rendere possibile il rinnovamento della tecnica produttiva.
I saggi di intervento dei governi borghesi per le
necessità di guerra nell’andamento dell’economia agraria sono la prova di
questa insormontabile necessità; ma al tempo stesso sono anche la prova
dell’incapacità dell’attuale forma di apparato statale ad assumere la funzione
socializzatrice della ricchezza. Non è nostro compito combattere qui in
generale la tesi socialdemocratica della collettivizzazione eseguita dallo
Stato borghese parlamentare, che è il protettore storico naturale degli
interessi degli sfruttatori, né svolgere la critica dei progetti utopistici di
socializzazione dietro indennità. A noi qui basta concludere che lo sviluppo
della produzione agricola fino a quella perfezione e a quella intensità che
sono indispensabili per assicurare il benessere collettivo nel campo delle
prime necessità della vita, non è compatibile col presente regime dominato
dalle leggi del profitto capitalistico, dalla libertà di produzione e di
commercio, e per questa stessa ragione sarebbe inutile invocarlo come argomento
per dimostrare che devono ancora svolgersi, prima della rivoluzione proletaria
che affronterà la demolizione dell’economia privata, della libertà economica,
lunghe fasi di sviluppo dell’attuale assetto sociale.
IL POTERE PROLETARIO E L’AGRICOLTURA
Ricordiamo come si sistemano nella visione
prospettica della rivoluzione propria dei comunisti marxisti e della III
Internazionale il processo economico e quello storico-politico della
rivoluzione che dal capitalismo ci condurrà al comunismo. Il carattere
economico di questo trapasso è il passaggio dall’appropriazione privata dei
prodotti del lavoro associato nelle grandi unità produttive, alla disposizione
di tali prodotti da parte della collettività dei produttori, che centralmente
organizzi e diriga la distribuzione dei prodotti ai membri della comunità
produttrice. Ciò non può avvenire per l’opera locale dei gruppi di lavoratori,
né azienda per azienda, poiché mentre si sopprime il modo di produzione
capitalistico si deve nella stessa misura sopprimere la distribuzione per mezzo
del commercio libero, cioè aver tracciato la rete della distribuzione centrale
e razionale delle materie prime e dei prodotti. L’artefice di tale opera non
può essere che un potere organizzato centrale, che abbia la forza di poter
vincere le resistenze della classe capitalistica, e la possibilità di iniziare
e dirigere centralmente il nuovo apparato economico. Questo potere è lo Stato
proletario. Non è qui il luogo della dimostrazione che questo apparato statale
non può sorgere che col violento abbattimento di quello attuale, congegnato per
la funzione di difesa dello sfruttamento privato.
È il potere proletario che affronta ed inquadra il
problema della trasformazione economica. Esso si impadronisce anzitutto del
capitale bancario concentrando le banche private in una grande unica banca di
Stato, e quindi procede alla espropriazione dei capitalisti industriali, man
mano che una grande rete di statistica e ragioneria statale appronta gli
apparecchi di gestione delle varie branche d’industria. La piccola industria
entro certi limiti si lascia sopravvivere per un certo tempo. Ma lo Stato proletario
tende a realizzare prontamente un primo postulato dell’economia comunista: la
soppressione totale del libero commercio dei prodotti industriali. Questa, che
è in Russia un fatto compiuto, non è incompatibile colla sopravvivenza di parte
della piccola industria. Basta che i piccoli produttori siano costretti a
consegnare ai magazzini dello Stato tutto il prodotto delle loro aziende, che
viene così ad aggiungersi a quello distribuito dagli organi collettivi - prima
dietro un prezzo in moneta, poi dietro buoni di lavoro, infine, quando la
produzione abbia preso un sufficiente sviluppo, secondo le richieste dei
consumatori controllate opportunamente, e così via. Il piccolo imprenditore che
per poco sopravvive è compensato del prodotto consegnato in denaro o con altre
forme, finché la sua piccola azienda non sarà soppressa ed assorbita in quelle
socializzate.
La concentrazione dei mezzi produttivi in grandi
unità organiche è dunque la premessa della loro gestione collettiva. Ma la
società, all’indomani della conquista rivoluzionaria del potere da parte del
proletariato, non è ancora la società della gestione collettiva (così come oggi
ancora la società borghese presente non è la società della grande intrapresa
privata generalizzata). Dopo la vittoria insurrezionale e la proclamazione
della dittatura proletaria non fa che iniziarsi il processo di trasformazioni
economiche che dovrà culminare nel comunismo. Ma un grande svolto della storia
umana sarà stato oltrepassato: per la prima volta il processo economico anziché
svolgersi in modo ignorato dagli uomini e fuori dal controllo della scienza e
della volontà umana, sarà gestito e diretto dalla collettività organizzata in
base al principio motore dell’interesse collettivo e dell’elevamento generale
del benessere, poiché la forma di organizzazione, lo Stato dei produttori, si
esprime dalle file della collettività lavoratrice, ed è retta dal partito
comunista, ossia dall’organo di squisita sensibilità e vitalità che in sé
condensa l’esperienza e la volontà della classe produttrice, la coscienza del
compito storico che essa assolve.
Nel quadro di questa situazione, all’indomani
dell’abbattimento dello Stato borghese, qual è il lavoro che l’apparato statale
proletario deve esplicare nel campo della economia agricola? Esso dipende
indubbiamente dal grado di sviluppo dei processi di trasformazione dell’impresa
agraria, diverso da paese a paese, da regione a regione dello stesso paese, ed
è complesso per la coesistenza di varie forme fondamentali di gestione agraria.
Se volessimo, prima di esaminare tutto ciò,
rispondere alla eventuale obiezione circa l’immaturità dell’intervento del
potere proletario nell’agricoltura, dovremmo risalire alle obiezioni più
generali all’avvento al potere della classe operaia in paesi a sviluppo industriale
limitato, che hanno soprattutto dilagato dopo la rivoluzione di Russia. Ed in
tal caso sarà bene premettere che il grande problema della trasformazione
economica e sociale non può contemplarsi in un arbitrario circuito chiuso, sia
anche questo quello di uno degli attuali Stati. Esso è problema internazionale,
e risente delle influenze dei fenomeni internazionali, soprattutto della grande
guerra recente. Fino a quando il potere proletario si è affermato in un solo o
in pochi dei grandi Stati moderni noi non potremo propriamente parlare della
chiusura della fase in cui al proletariato si presentavano compiti di lotta
politica, e dell’apertura di quella in cui si concentrano tutte le energie alla
trasformazione economica. Dopo l’affermazione della dittatura proletaria in un
paese, non solo resta da esplicare la lotta contro inevitabili tentativi della
controrivoluzione, ma altresì quella contro le aggressioni esterne degli altri
Stati retti ancora a regime borghese. La rivoluzione russa non è che l’inizio
della rivoluzione proletaria politica mondiale. Le condizioni rivoluzionarie
accentuate per le conseguenze della guerra pongono dovunque il problema
implacabile della fine della economia capitalistica, e quindi il dilemma:
dittatura borghese o dittatura proletaria. Questa vince laddove è minore la
resistenza, e di lì inizia il suo procedere: la resistenza ha potuto essere
minore dove, come in Russia, meno era sviluppato il capitalismo, per ragioni
che lungo sarebbe ricordare, ma ciò che ha determinato l’esplosione
rivoluzionaria russa non è solo il grado di sviluppo economico russo, ma il
grado di sviluppo del capitalismo mondiale, che ha così iniziato la sua
universale ripercussione rivoluzionaria, tra le spietate contraddizioni della
sua crisi bellica.
Il potere proletario può dunque intraprendere il
suo cammino nel tempo e nello spazio anche in un paese ove siano deficienti le
condizioni della socializzazione. Ma, passando all’aspetto di questa cosa nel
campo agrario, se in nessun paese esistono le condizioni generali della
gestione socializzata della terra, gli altri compiti che si pongono in tal
campo alla dittatura degli operai e dei contadini, danno appunto, come vedremo,
al potere proletario altri punti di appoggio nella sua lotta di diffusione, anche
quando esso non poggi ancora sulla gestione collettiva dei colossali
agglomerati industriali d’Occidente.
E quindi il problema dei compiti agrari della dittatura ci fornisce elementi per vieppiù confutare le obiezioni poggiate sulla pretesa «immaturità della rivoluzione».
Il problema del progresso dell’economia agraria si presenta, per l’impossibilità di una vasta sua soluzione nei quadri del capitalismo, soprattutto nel cuore della crisi postbellica, come una grande questione rivoluzionaria al fianco di quella della socializzazione della grande industria e delle grandi vie di comunicazione mondiale.
Prima di andare innanzi, e benché non sia qui nostro obiettivo dimostrare il funzionamento del meccanismo di gestione socializzata dell’economia, né in astratto, né nelle esperienze della sua applicazione in Russia, ma solo additare le linee generali dei rapporti che si presentano nella trasformazione dell’economia agraria, sollevandoci appena dalle formulette imprecise che condannano la «proprietà privata» o la «piccola azienda» ad una migliore valutazione marxista, collo scopo precipuo di dissipare grossolani malintesi fondamentali, pure è necessario dire qualcosa sul come si collega la questione agraria a quella generale dell’alimentazione della popolazione.
Quella parte di questa che vive nelle città si provvede nel regime borghese di generi alimentari per la via del commercio privato, acquistando con danaro i generi portati dalla campagna, dal contadino produttore, e più spesso dai molteplici intermediari.
Nei primi tempi della dittatura proletaria sopravviverà il commercio libero dei generi alimentari, a mezzo del denaro, ma andrà sostituendolo progressivamente la distribuzione statale. Lo Stato creerà grandi magazzini di generi alimentari, e prenderà nelle sue mani l’organizzazione sistematica dei trasporti di essi nella misura occorrente ai vari centri di consumo. Nei primi tempi i magazzini statali venderanno a prezzi determinati ai lavoratori delle varie branche della produzione che riceveranno salari sufficienti al loro bisogno.
Ben presto però, ed è questo un momento
fondamentale del superamento del meccanismo capitalistico, saranno nettamente
sdoppiati questi due fatti economici: la necessità di lavorare per vivere e
quella di ricevere i generi necessari alla vita. Il salario in denaro stringe
in regime borghese questi due fatti col vincolo di una ferrea necessità. In
regime socialista la necessità di lavorare è assicurata indipendentemente
coll’obbligo al lavoro pena di perdere ogni diritto, compreso quello alla
alimentazione - la fornitura dei generi necessari alla vita è proporzionata,
non alla richiesta illimitata, finché non si saranno raggiunte lontane fasi
avvenire di ultraproduttività sociale, ma ad un contingentamento sulla base del
numero degli individui da alimentare. Soppresso così il principio capitalista
che il salario è in ragione della quantità di lavoro fornito, sparirà la
fondamentale sperequazione che si stabilisce tra i lavoratori a seconda che
hanno a loro carico un numero minore o maggiore di «bocche» improduttive.
Divenuta la collettività responsabile diretta dei bimbi, delle madri, dei
vecchi, degli inabili, degli stessi disoccupati senza loro colpa, cambia tutta
l’impostazione del problema della sussistenza sociale: ci sarà difetto per
tutti di alimentazione e della soddisfazione di altre esigenze della vita solo
allorché la disponibilità di prodotti sarà sproporzionata al numero di
consumatori.
Questo sistema andrà stendendo la sua rete nella
misura in cui lo Stato proletario si consoliderà, si libererà dai nemici
politici e militari interni ed esterni, ricostituirà i grandi impianti
produttivi rovinati dalla guerra nazionale e rivoluzionaria; soprattutto esso
funzionerà in pieno quando sarà installato su di una base di compensazione e di
coordinazione mondiale, colla vittoria universale della dittatura proletaria.
Nel lungo cammino che condurrà ad un tale
meccanismo, esso coesisterà con i residui di quello del commercio privato,
soprattutto per quanto riguarda i prodotti dell’agricoltura, sia perché le
imperfezioni e le insufficienze inevitabili all’inizio del nuovo metodo
determineranno irresistibilmente la tendenza anche al contrabbando della
distribuzione commerciale dei generi alimentari.
È fondamentale dunque per lo Stato proletario
venire in possesso delle grandi quantità di prodotti della terra, per curarne
la distribuzione alle popolazioni urbane; maggiormente ciò è necessario finché
c’è un esercito sul piede di guerra. Durante la grande guerra delle nazioni,
gli Stati borghesi si sono assunto un compito analogo: requisire i generi di
maggiore necessità, prelevarne il fabbisogno dell’esercito, distribuire il
resto alla popolazione in misura proporzionale alle bocche da alimentare, ma
dietro pagamento di dati prezzi. Naturalmente a guerra cessata gli Stati
borghesi si sforzano di demolire questo apparato per ritornare al libero
commercio. Questo apparato artificiale se era una prova della insufficienza del
metodo capitalistico di compensazione tra produzione e consumo, non era
minimamente un esperimento di socialismo.
Potrà darsi che in periodo di lotta eccezionale -
e ciò è avvenuto in Russia - lo Stato proletario debba ricorrere a forme di
regolamentazione dell’alimentazione collettiva che siano soltanto intermedie tra
questa bruta contingentazione e l’impianto del vero apparato distributivo
socialistico.
Come perverrà lo Stato proletario a disporre dei grandi stock di prodotti agrari che gli sono indispensabili per la popolazione non agricola? Come assicurerà che a questa rimanga quanto le occorre pel diretto suo consumo? È questo che dobbiamo considerare nel passare in rassegna le varie forme di azienda produttiva agricola su cui si esplicherà l’influsso della rivoluzione.
Vediamo adunque quali saranno in linea generale i compiti del potere proletario, nel periodo immediatamente seguente la sua instaurazione, dinanzi alle varie forme di economia agraria attuale.
A) DINANZI ALLA GRANDE AZIENDA MODERNA
Laddove esistono quelle grandi tenute agricole, in cui all’estensione territoriale si accompagna l’unità organica di produzione, e da un intraprenditore capitalistico dipendono i lavoratori agricoli salariati con rapporti non dissimili da quelli della grande industria, lo Stato proletario adotterà le medesime misure che per le grandi aziende industriali ossia priverà di ogni diritto il proprietario del suolo e l’intraprenditore dell’azienda, anche dove non facciano una stessa persona, dichiarerà l’azienda proprietà dello Stato, ne rileverà il prodotto assumendosi il mantenimento dei lavoratori che vi sono addetti in tutte le loro necessità.
Perché ciò sia fattibile non occorreranno che le
stesse condizioni che si dovranno allestire nei piani di socializzazione delle
varie industrie progredite, cioè gli organi capaci di amministrare e di
disciplinare centralmente la fornitura di quanto tali aziende devono ricevere
dall’esterno, e la distribuzione del loro prodotto. È evidente che aziende di
tal natura avendo un elevato rendimento tecnico producono molto di più di
quanto occorre al consumo in derrate del loro personale. In un primo periodo
potrà essere direttamente trattenuta una parte del prodotto per la
distribuzione a coloro che lavorano nell’azienda, detraendone il corrispettivo
dai salari, siano essi in denaro o in natura, o meglio, appena il criterio del
salario sarà sorpassato da quello del mantenimento a cura dello Stato di tutte
le «bocche», tenendo semplicemente conto nei piani di distribuzione di ciascun
articolo di consumo di questi «circuiti» immediati che si conseguono lasciando
sul posto parte del prodotto disponibile a diminuzione del fabbisogno generale
di consumo. In appresso coll’intensificarsi della coltura, ed il probabile
specializzarsi delle aziende nella produzione di limitato numero di specie di
derrate per ciascuna, il sistema di ritiro del prodotto e sua ridistribuzione
si approssimerà di più a quello realizzato nell’industria, dove probabilmente
l’operaio di una data fabbrica, ad es. di scarpe, non porterà mai le scarpe
fabbricate nella sua azienda o per lo meno le riceverà altrove (è bene notare
che la crisi dell’industria e dei trasporti in Russia ha costretto a lasciar
sopravvivere il criterio dei «premi in natura» ossia della distribuzione agli
operai dell’industria di una piccola parte dei prodotti dell’azienda che li
impiega).
È indiscutibile che l’interesse dei lavoratori
della grande azienda agraria moderna alla rivoluzione proletaria è per lo meno
uguale a quello dei lavoratori industriali. Essi sono prima della rivoluzione
vittime dello stesso sfruttamento; sono pagati in denaro ed in misura
insufficiente a procurarsi il necessario di quei prodotti di cui il loro lavoro
ha colmati i magazzini del padrone. Anche dove hanno qualche parte del salario
in natura, ciò non migliora la loro posizione, ma dipende dalle convenienze
commerciali dell’imprenditore. Il tenore di vita di questa parte della
popolazione agraria, che è costituita dai veri operai agricoli, che non
posseggono né terra né attrezzi né denaro, si eleverà notevolmente passando
dall’esercizio privato a quello collettivo delle aziende alle quali sono
addetti.
Non meno dei lavoratori dell’industria essi
potranno politicamente essere condotti ad intendere che un periodo di
sacrificio iniziale dovrà essere sopportato, per consolidare le basi della
dittatura proletaria, unica condizione per superare definitivamente lo
sfruttamento capitalistico. Questi lavoratori, ed almeno quelli che alla
condizione di essere nullatenenti di denaro e di terra aggiungono l’altra di
essere addetti ad aziende industrializzate (e sono assai più numerosi
nell’Europa occidentale che in Russia) prendono una posizione esattamente
parallela a quella dei proletari dell’industria nei riguardi della lotta
rivoluzionaria, per conquistare e poi per sostenere e difendere la dittatura
proletaria, per dirigere la rivoluzione comunista. Le loro condizioni di vita
lungi da grandi centri li hanno resi meno permeati di cultura delle masse
urbane, ma ciò spesso li rende più battaglieri ed entusiasti nelle azioni di
classe, e certe forme di degenerazione che porta seco nei grandi centri il
sistema del salariato li hanno meno raggiunti.
Nulla menoma la loro figura tipica di soldati della avanzata rivoluzionaria.
B) DINANZI ALLA GRANDE PROPRIETÀ TRADIZIONALE
Dopo quanto abbiamo detto circa le grandi
proprietà rurali che non hanno raggiunto i caratteri di grandi aziende
unificate nel loro meccanismo produttivo, non occorreranno molte parole per
stabilire che non può parlarsi di socializzazione, ossia di gestione da parte
dello Stato proletario, quando siamo dinanzi alle suddette grandi proprietà.
Per sostituirsi all’antico proprietario, lo Stato dovrebbe, è intuitivo,
annullare ogni diritto di costui ed escluderlo dall’andamento della produzione
agraria nel territorio da lui già posseduto, e questo sarà senza alcun dubbio
fatto, ma, sparito il proprietario latifondista, lo Stato non si troverà
dinanzi un’azienda produttiva, ma tante piccole aziende, non collegate da alcun
rapporto organico tecnico o amministrativo. Abbiamo detto, ricordato per meglio
dire, l’elementare considerazione che non può parlarsi di socializzazione e di
gestione centrale delle piccole aziende, mancando ogni convenienza di inserirle
nel giro generale della produzione e della distribuzione collettivizzata,
poiché l’apparato amministrativo necessario sarebbe tanto ingombrante da
assorbire colla sua passività tutto il rendimento delle aziende amministrate,
tanto più ove si pensi che le aziende agricole consumano sul posto notevole
parte del prodotto.
La rivoluzione proletaria in questi casi non farà
che un primo passo sulla via che conduce ad un’economia comunista, cioè
sopprimerà lo sfruttamento del proprietario parassita, ciò che porterà a «liberare»
le molteplici piccole aziende a conduzione familiare che da lui dipendevano per
un vincolo giuridico. Queste continueranno il loro funzionamento tecnico come
prima, poiché in esso non interveniva o interveniva in misura inapprezzabile il
latifondista, saranno tra loro autonome, perché lo erano in realtà già prima, e
le legava solo il comune sfruttamento.
Il rovesciamento del potere borghese, ossia
dell’organizzazione di forza armata che difendeva il diritto di proprietà, avrà
in questo campo come conseguenza la soppressione dello sfruttamento dei piccoli
contadini, sotto forma di soppressione del pagamento dell’affitto e del
tributo in natura che i coloni versano al proprietario. Questi «si spartiranno»
la terra del padrone, senza alcun dubbio, ma tale espressione è imprecisa,
perché in realtà essi divideranno quanto già era diviso agli effetti reali
della produzione e cesseranno semplicemente il loro obbligo di pagare l’affitto
o di consegnare al padrone parte del prodotto.
Questo vuole ancora dire rimettere i lavoratori
nella disponibilità degli strumenti, e quindi dei prodotti, del proprio lavoro,
da cui non erano stati materialmente separati, come avviene ai lavoratori delle
grandi aziende industriali, ma sui quali pagavano una «taglia» al proprietario,
che non è sostanzialmente che una forma, adattata all’ambiente del commercio
capitalistico, degli antichi diritti feudali. Quando la grande azienda,
attraverso superiori e definitive complessità del processo produttivo, ha
separato i lavoratori dal prodotto del lavoro, si passa - lo abbiamo già
chiarito - logicamente alla disponibilità dei prodotti da parte della
collettività dei lavoratori, dello Stato proletario; ma queste condizioni non
esistono nel latifondo affittato a piccoli lotti. La sua distribuzione ai
contadini non viola dunque il programma socialista, che per quelli che mai
hanno lontanamente inteso che cosa esso fosse, e mai lo hanno considerato come
una realizzazione da ottenere con la lotta rivoluzionaria, anziché come un
luogo comune per i discorsi da comizio. Se la formulazione «soppressione della
proprietà privata» è inesatta, cervellotica addirittura sarebbe quella di «ingrandimento
o allargamento della proprietà privata» che la spartizione del latifondo
verrebbe a violare secondo le pietose considerazioni di certi
controrivoluzionari.
Si potrebbe con maggiore esattezza, senza perdere
di vista il significato del passaggio dall’economia privata a quella socialista
nelle sue definizioni tecniche ed economiche, parlare di abolizione del «diritto»
di proprietà. Il rovesciamento del potere statale borghese da parte del
proletariato consente di stracciare tutte le delimitazioni giuridiche di
proprietà vigenti nella suddivisione della terra, di non tenerne nessun conto
nel processo che si determinerà; o meglio, lo stesso crollo del potere centrale
borghese eliminerà tale fattore, mentre andrà delineandosi, come vedremo ora,
quello del disciplinamento del processo in corso da parte del potere proletario
sorretto dai contadini liberati.
Qui, ove ben si guardi, si può riconoscere una
differenza fondamentale tra la liberazione delle piccole aziende contadine che
determinava la rivoluzione borghese sopprimendo i privilegi feudali, e quella
che accompagnerà la rivoluzione proletaria, demolitrice del privilegio
capitalistico. Ecco perché il concetto di spartizione delle grandi proprietà
tradizionali tra i contadini, che noi accettiamo, o meglio che è l’unico reale
sviluppo possibile sempre considerato, date le condizioni che esaminiamo, dalla
critica marxista, può essere chiamato liberazione della piccola azienda, può
essere formulato con la frase «la terra ai contadini», ma non può essere detto
passaggio dalla grande alla «piccola proprietà» rurale. Infatti: soppressi i
privilegi feudali, il regime borghese nascente sistemava la proprietà agraria
sulla base fondamentale dell’economia ad intraprese libere ed autonome nel
gioco del commercio capitalista, nel quale lo Stato sorveglia che non si
abbiano passaggi della proprietà che nelle legali forme di acquisti, vendite,
eredità, ecc. Il riscatto dei servi feudali consisteva nel riconoscere loro la
possibilità di porsi innanzi al signore come «eguali» giuridici e commerciali,
ossia come acquirenti o come liberi locatari della terra da lui posseduta. I
contadini francesi che erano già prima dell’89 «proprietari» della loro terra
per averla comprata, furono riconosciuti padroni nel senso del diritto romano,
ossia con la disponibilità assoluta del loro pezzo di terra, togliendo al
barone feudale una serie di diritti che intaccavano a fondo il diritto del
contadino di essere padrone in casa propria. Il proprietario aveva avuto il suo
corrispettivo commerciale; vi furono tolti diritti di casta, per così dire
extracommerciali, che l’antico regime gli garantiva. Vi fu dunque
l’affrancamento dei contadini, non la espropriazione del latifondista. Questi
era separato «politicamente» dal contadino per i diritti di casta che aveva;
divenne, con la dichiarazione dei diritti dell’uomo, un suo «eguale», perché
per il diritto classico, sulla cui base nel codice napoleonico la borghesia
capitalistica vittoriosa sistemava gli ordinamenti statali, sono «eguali» due
che posseggono il primo mille ettari, il secondo uno, di terra, dato che le
stesse norme giuridiche e commerciali consentono «teoricamente» all’uno di
comprare quello che ha l’altro, di trattare con l’altro sullo stesso piede di
diritto.
Dopo la rivoluzione borghese che recò
l’affrancamento dei servi, se anche in un primo tempo vi furono invasioni ed
occupazioni di terre, la suddivisione della proprietà rimase strettamente regolata
dalle norme del commercio capitalistico; quegli che guadagnò nell’esercitare
l’azienda poté comprare altra terra o altri attrezzi e ingrandirsi, mentre
altri fallivano e vendevano il loro possesso. L’eguaglianza teorica del diritto
e della filosofia democratica è a posto, quando si sappia che tanto il primo landlord
quando l’ultimo povero contadino «possono» moltiplicare quello che posseggono o
rimanere senza nulla.
Ben altra lotta contro il grande possesso terriero
accompagna la rivoluzione del proletariato. Non c’è più «nessun limite» alla
divisione della terra, che sia rappresentato dalle sanzioni giuridiche del
diritto di proprietà. La massa dei contadini tende all’affrancamento dai
diritti del proprietario, tende alla disponibilità della terra, degli attrezzi
e dei prodotti del suo lavoro. Nel gioco di forze che ne nasce, interviene ad
un certo momento il criterio e la forza del nuovo potere proletario, ma con
direttive libere ormai dai canoni del diritto e dell’economia borghese.
Lo Stato proletario non può dire nelle sue
sanzioni «la gestione della terra alla collettività» come dice «la gestione
della grande industria o delle ferrovie alla collettività» perché le sanzioni
dello Stato proletario lungi dall’essere l’arbitrio di una oligarchia cieca sono
la derivazione di una razionale intelligenza delle possibilità economiche,
laddove queste esigono «l’intervento dispotico» divinato da Marx così come
l’utero rigonfio esige la crisi del parto. Ma lo Stato proletario, dinanzi alla
grande proprietà tradizionale (seguitiamo a servirci di questa dizione) al
latifondo semifeudale, proclama: la terra a chi lavora, l’azienda agricola al
contadino. Sorge un principio disciplinatore, a cui «si tende» nel regolare la
spartizione della terra e degli attrezzi agrari: dare ad ogni contadino, ad
ogni famiglia contadina, tanta terra e tale attrezzaggio da potervi utilmente
investire tutta la sua potenzialità razionale di lavoro, eliminando il lavoro
salariato agrario, ossia il lavoro del contadino nella terra «di un altro».
In questo disciplinamento lo Stato proletario
incontrerà mille difficoltà, cui accenneremo, ma avrà saltata quella del «diritto
di proprietà» perché nelle distribuzioni della terra che le varie famiglie
contadine dovranno esercire, non si terrà calcolo alcuno di preesistenti
diritti di compravendita, di eredità, si casseranno le ipoteche, i debiti verso
gli usurai agricoli, ecc. Ecco le catene che la rivoluzione proletaria potrà
spezzare per liberare il processo di redenzione dei lavoratori della terra, e
che la rivoluzione borghese lasciò intatte, limitandosi ad allentare quelle
rugginose dei privilegi sanciti da una legislazione precapitalistica.
Quindi non gestione statale dell’agricoltura, dove non è possibile per arretrate condizioni tecniche, ma esercizio della terra da parte di chi la lavora. Non tendenza a realizzare il concetto, possibile nelle aziende industrializzate, della collettivizzazione dei prodotti del lavoro per la distribuzione a tutte le «bocche» della classe lavoratrice, ma diritto a ciascun lavoratore di disporre dei prodotti del suo lavoro, meno la parte da assegnare alla collettività, che con altre prestazioni compensa il lavoratore agricolo.
Gestione privata o familiare della terra, dunque,
come risultato immediato della rivoluzione laddove vi era una forma di gestione
feudale-capitalistica, ma non sulla base del sistema di proprietà
capitalistica, bensì con l’applicazione di quel principio di assegnare al
lavoratore tanta terra da poterla lavorare, che, gradualmente, garantirà lo
Stato proletario. La compravendita e l’eredità della terra sono abolite; i
consigli di contadini, nell’ambito di disposizioni generali dello Stato
proletario, quando il sistema si sarà sviluppato, regoleranno la ripartizione
della terra secondo lo sviluppo delle forze lavorative di ciascuna famiglia e i
mutamenti di queste.
Il principio direttivo della rivoluzione agraria non sarà dunque di instaurare la piccola proprietà al posto della grande, ma di liberare la piccola azienda contadina da uno sfruttamento secolare, non per darle un’autonomia economica a tipo capitalistico a cui si accompagnano ulteriori prospettive di sfruttamento e di ineguaglianza ma per disciplinarla con razionale intervento del potere proletario. Ben può parlarsi dunque, non della impossibile gestione collettiva della terra, ma di una «proprietà» collettiva (statale, nazionale, sociale) di essa accompagnata dalla gestione a piccoli lotti. «La terra alla nazione per i contadini»: non è dunque inesatta la formula bolscevica.
Da tutto ciò si vede che di spartizione materiale
di dovrà parlare, in quanto avverrà necessariamente, per iniziativa della massa
e per intervento statale, che, eliminato il latifondista, non resterà
semplicemente ogni contadino in possesso delle terre che affittava o teneva in
colonìa parziaria, ma verrà tolto ai grandi affittuari per dare ai piccoli,
tendendo all’equilibrio di dare ad ognuno tanta terra da potervi lavorare senza
sfruttare lavoro altrui. Questo non contraddice che in apparenza al nostro
argomento che con tale processo si viene a dividere quanto dal punto di vista
del reale assetto produttivo tecnico già era diviso, sotto il comune
sfruttamento del latifondista. In realtà se la grande azienda può essere o meno
una unità produttiva organica, secondo che vi interviene la specializzazione
delle funzioni tecniche, la piccola e media azienda agraria non è quasi mai,
soprattutto nei paesi di agricoltura rudimentale, una razionale unità
produttiva. Un contadino, o una famiglia, organizza la produzione sul suo piccolo
lotto in modo rudimentale, ossia facendo tutti i «mestieri» successivamente. Il
limite dell’azienda dipende dalla sua forza di lavoro. Se avrà più terra, si
porranno a lavorarla in due, in cinque o in dieci, ma non raggiungeranno una
specializzazione del lavoro, o un perfezionamento tecnico. In un certo senso
potremo anzi dire che troveremo migliore tecnica nella piccolissima azienda del
contadino «povero di terra» e naturalmente sollecitato a crescerne il
rendimento. Cosicché lo stato di fatto della divisione del latifondo in lotti
non è una razionale conquista dell’assetto produttivo, lo si può alterare senza
fare dei passi indietro cambiando la distribuzione. Tutto ciò vige, ben si
intende, in linea di massima.
Queste considerazioni ci conducono a considerare
un’altra eventualità, che viene a restringere prudenzialmente il campo delle
aziende «socializzabili» per il loro sviluppo di industrializzazione. Vi sono
grandi tenute, dove magari esiste una traccia di amministrazione centrale «in
economia», ovverosia con lavoratori salariati, ma che sono in realtà coltivate
meno bene di quelle assegnate in lotti ai coloni, o almeno non meglio. Troviamo
qui il lavoro salariato, il lavoratore separato dal prodotto del lavoro, ma non
ancora col processo di unificazione tecnica dell’azienda, che suscita negli
addetti ad essa la tendenza a chiederne l’esercizio collettivo. Avverrà quindi
che anche lavoratori salariati, in questi casi, procederanno irresistibilmente
alla spartizione della terra; e ciò laddove il lavoro in comune non sarà stato
reso tecnicamente indispensabile dalla «specializzazione» che fa sì che uno
solo degli addetti all’azienda non possa riuscire ad attuare tutto il processo
di manipolazione del prodotto ultimo, ma una fase sola.
D’altronde bisogna tener conto delle fasi che presenterà la disfatta dei grandi proprietari agrari e l’offensiva dei contadini. L’affermarsi del potere rivoluzionario e delle preziose sue capacità di disciplinamento centrale dello sforzo delle masse comincerà dalle città e raggiungerà in ritardo le campagne. Esso si troverà innanzi a fatti compiuti che si potranno fino ad un certo punto sottomettere a regole, mai a regole aprioristiche e risultanti da vuote astrazioni. Ricordiamo ancora una volta il paragone col processo dell’economia industriale. «Il compito» della dittatura proletaria è, abbiamo detto, la socializzazione «immediata» della grande industria. Ma abbiamo aggiunto che per procedervi di fatto occorrerà un certo lavoro di organizzazione preliminare dei nuovi organi del meccanismo di distribuzione comunista, di amministrazione centrale. Nell’intervallo il processo si presenterà molte volte come, se non l’espulsione dalla fabbrica, almeno la limitazione delle funzioni dell’industriale che gli operai «di quella fabbrica» attueranno senz’altro prendendone le redini. È dopo solo che lo Stato proletario interverrà con l’organizzare il «controllo» prima, la gestione poi della grande industria da parte di organi propri, ossia del proletario vincitore.
Gli operai in possesso dell’azienda potranno commettere degli errori, la lotta e il primo esperimento di nuova gestione potranno abbassare il rendimento dell’azienda, ma questa non perderà il carattere di unicità produttrice. L’impossibilità materiale farà sì che non possa nemmeno saltare in mente ai lavoratori di «dividersi» la fabbrica che apparteneva al capitalista, e che forma un tutto inscindibile.
Passiamo al caso della terra. La rivoluzione sociale che determina le forme socialiste gravita tutta su questa condizione di necessità. La specializzazione del lavoro incanala la lotta contro il parassitismo del proletariato nella gestione collettiva della produzione. Dove la prima ci sarà, la direzione del processo rivoluzionario sarà tale: nelle grandi aziende industrializzate i contadini si formeranno in comunità esercente la terra, a cui subentrerà opportunamente la più vasta comunità che è lo Stato proletario; perché avranno interesse a non spezzettare la tenuta, le sue macchine, i suoi impianti (case, industrie agrarie, grandi stalle, derivazioni d’acqua, energia elettrica ecc. ecc.) e il processo che conduce alla grande gestione statale sarà garantito.
Ma dove i contadini, pur essendo dei salariati che lavorano materialmente insieme, ossia l’uno vicino all’altro, ma non cementati dal vincolo derivante dall’essere ognuno di loro specializzato e quindi indispensabile a tutti, non troveranno queste eloquenti indicazioni della necessità tecnico-economica, è evidente che essi occuperanno la terra dividendola in lotti assegnati alle varie famiglie, così come i coloni che tenevano già in esercizio parti limitate di grandi fondi.
Tutti costoro concorreranno alla ripartizione dei grandi possessi, tutti lotteranno uniti contro la classe dei proprietari che non lavorano.
Il compito dello Stato proletario nel periodo immediatamente successivo alla sua instaurazione sarà dunque di sostenere questa lotta.
Il grande problema che immediatamente sorge è
quello di prelevare dalle piccole aziende liberate il contingente di derrate
necessario alla popolazione non agricola. Considereranno i contadini questo
prelevamento come quello che prima effettuava il latifondista? No certo,
anzitutto perché esso sarà molto inferiore. Nei paesi di agricoltura arretrata
sarà inferiore, in quanto il boiardo, come in Russia, prendeva per sé quasi
tutto; in quelli di agricoltura più progredita tale contributo non intaccherà
che quello che il contadino sarà in grado di produrre al di là del suo
fabbisogno in derrate alimentari.
In corrispettivo di tale prelevamento lo Stato
proletario dà ai contadini una serie di prestazioni e di garanzie. Ma di tale
meccanismo, in linea generale, nel suo applicarsi nel divenire rivoluzionario,
ed in specie in Russia, accenneremo ora dopo brevi parole sul compito del
potere proletario innanzi alla piccola proprietà rurale preesistente alla
rivoluzione.
C)
DINANZI ALLA PICCOLA PROPRIETÀ
La socializzazione o nazionalizzazione delle
piccole aziende rurali oggi gestite dai proprietari «giuridici» non può essere
che una espressione vuota di ogni senso: riteniamo ciò per ormai
incontrovertibile.
L’esercizio di esse dunque resterà affidato al
piccolo contadino che attualmente vi lavora colla sua famiglia. Ma il crollo
del potere borghese e la instaurazione di quello proletario recheranno seco una
radicale trasformazione dei rapporti nei quali vive tale piccolo esercizio
produttivo, dal punto di vista della ripartizione della terra, come da quello
della disposizione dei prodotti.
In regime borghese il piccolo proprietario è teoricamente il padrone assoluto della sua terra e di quanto trae da essa col suo lavoro. Ma questa enunciazione giuridica è lungi dal tradursi in una realtà economica. In realtà, e ad eccezione di periodi di prosperità sui quali molto di solito si suole esagerare, la integrità di quei diritti è minacciata da molte parti. La mancanza di mezzi economici che consentano al piccolo proprietario di provvedersi degli attrezzi e di quanto altro deve acquistare necessariamente sul mercato lo rendono vittima degli usurai e lo sottopongono ai debiti ipotecari sul suolo che possiede, molte volte a penosi impegni di vendere il prodotto a date persone e a date condizioni sfavorevolissime. Lo sfruttamento economico capitalista ha dunque molte vie per raggiungere il piccolo contadino proprietario senza intaccare il «sacro» suo diritto. La rivoluzione proletaria cancellerebbe di colpo questi oneri, cui il piccolo esercente di terra soggiace quasi generalmente.
I piccoli coloni e affittuari liberati dal giogo dei grandi proprietari terrieri; in taluni casi, come vedemmo, i contadini senza terra in regioni dove manca possibilità ed esempio di conduzione collettiva dell’azienda agraria; e i piccoli proprietari, per effetto della rivoluzione politica verranno a trovarsi con assoluta parità di «diritto» dinanzi al problema della ripartizione della terra.
Il contadino che dispone di una superficie di terra insufficiente ad assorbire la sua forza di lavoro e quella della famiglia e per conseguenza insufficiente a garantirgli una certa quantità di prodotto che gli è necessaria (sia per il diretto consumo che per l’esito in quelle forme che si renderanno possibili in cambio di quanto gli occorre), il contadino «povero di terra» naturalmente sarà spinto ad occupare la terra che altri possiede in eccesso derivandola sia dal fatto di essere già un medio proprietario, sia dalla posizione di grosso affittuario subentrato al latifondista, sia per arbitrarie occupazioni, ecc. I contadini poveri, favoriti in ciò dallo Stato operaio, si organizzano per lottare contro quelli che possiedono terra in eccesso, per non essere costretti ad andare a lavorare come salariati la terra di costoro, e quindi per procedere ad una equa ripartizione di terre.
Non vi è alcuna eresia teoretica nel dire che i piccoli proprietari non solo conserveranno la loro terra (ma a chi dunque si dovrebbe darla? a meno di non volervi porre sopra un cartello: «socializzata per ordine della asinità socialdemocratica», e abbandonarla all’incoltura o alla coltivazione delle... zucche), ma ne riceveranno altra fino a capacità di forza lavoro (questo sempre come tendenza generica, che in realtà quello che si svolgerà dipenderà: a) dalla quantità di terra disponibile in proporzione della popolazione lavoratrice rurale; b) dalla forza politica e dallo sviluppo economico industriale del regime proletario che interverrà a disciplinare l’azione delle masse contadine).
Avremo dunque sotto il regime del potere
proletario due sole forme di esercizio della terra: le grandi aziende moderne
che saranno a conduzione statale (aziende soviettiste in Russia, che nel 1919
non coprivano che il 2% della superficie di terra coltivabile) e le piccole
aziende affidate all’esercizio dei contadini, derivanti dalla piccola proprietà
e dalla grande proprietà tradizionale, semifeudale. La proporzione in cui
queste due forme costituiranno la produzione agricola dipenderà dal
preesistente sviluppo tecnico della pratica agraria, oltre che dalle condizioni
generali di prosperità legate alle sorti della lotta politica rivoluzionaria e
del processo di socializzazione dell’industria.
Come le piccole aziende agricole inseriranno il loro meccanismo produttivo in quello statale, e soprattutto in riguardo alla distribuzione dei generi alimentari? In un primo tempo la rivoluzione proletaria rovescerà l’integrità del diritto a possedere la terra, in un secondo tempo essa interverrà nella destinazione dei prodotti. Vi sarà un periodo in cui le piccole aziende, uscite nella loro sistemazione dalla infrazione del diritto di proprietà borghese, vivranno ancora nell’ambiente del commercio borghese, ossia della libertà di collocare sul mercato l’eccedenza del loro prodotto sul consumo interno, in cambio di denaro che conserverà la possibilità di acquisto di generi manifatturati e prodotti industriali, magari a prezzi fissati da organi statali. Il regime che si tenderà a realizzare sarà quello che il contadino esercente la piccola azienda possa «vendere» solo allo Stato a dati prezzi, prima, e poi contro consegna di date quantità che gli competono di prodotti industriali e come corrispettivo di altre prestazioni statali man mano che matura l’abolizione della moneta. La piccola azienda tenderà a perdere un carattere di speculazione per inserirsi nel quadro della produzione collettiva.
Ma il primo momento lascerà allo Stato proletario la possibilità di dire solo che esso riserva a sé una certa parte del prodotto eccedente, non tutto, finché non potrà direttamente tutto fornire di quanto occorre alle necessità del funzionamento dell’azienda.
Solo dopo la risoluzione di questo problema si potrà fare un passo veramente gigantesco verso il regime comunista, cioè la soppressione del libero commercio non solo per i prodotti industriali ma anche per quelli agricoli.
In ogni modo la possibilità di inserire il funzionamento del piccolo esercizio agricolo, per un tempo non breve, nel regime di potere proletario esiste indubbiamente e vi ritorneremo su tra breve.
Resta a dire una parola su quanto è avvenuto in
Russia. La guerra civile, sommandosi alle conseguenze di quella zarista e
borghese, ha paralizzato gravemente l’economia generale del paese e la grande
industria statizzata, cosicché questa non domina totalmente la vita economica
ed il problema della piccola azienda agraria si pone al primo piano, mentre
altresì la piccola industria ha parte notevole nella produzione. La cattiva
raccolta del 1920 ha dimostrato quanto si sia ancora lontani dal poter superare
la fase del libero commercio dei prodotti agricoli sulla unica base che si può
chiamare di avviamento al comunismo, cioè la somministrazione da parte dello
Stato ai contadini di tutto quanto loro occorre, contro prelevamento di tutto
il prodotto. Si è ancora allo stadio in cui lo Stato non può tutto distribuire
ai contadini, e perciò esso deve contentarsi di prendere ad essi una quota
parte dell’eccedenza del prodotto lasciando loro la disponibilità del rimanente
nel campo dello scambio con quanto altro loro occorre e che è prodotto dalla
piccola industria od anche che si acquista negli stessi magazzini di Stato.
Questo è il sistema della «imposta alimentare». Si è fatto un gran chiasso
parlando di misura retrograda, in quanto precedentemente lo Stato prendeva ai
contadini, con la forza se del caso, tutto l’eccedente ed anche il necessario
ad essi, vietando il libero commercio. Ma, come mirabilmente dimostra Nicola
Lenin, questa misura era «fuori tempo» rispetto al razionale sviluppo economico
verso il comunismo, necessariamente lento in Russia data la sua economia e la
lotta gigantesca contro la reazione esterna. Era una misura di «comunismo
militare», una requisizione dettata da eccezionale stato di necessità e che era
erroneo scambiare per una tappa assicurata del processo economico. Infatti essa
era possibile in quanto era la condizione necessaria della lotta armata contro
i reazionari feudali, e si potevano indurre i contadini a intendere che
rifiutando di sacrificarsi avrebbero determinata la vittoria della
controrivoluzione e il ritorno allo sfruttamento da parte dei signori. Non era
peraltro una situazione naturale, poiché i contadini non ricevevano nulla dallo
Stato, oltre la loro difesa militare, alla quale già contribuivano di persona
nell’esercito rosso, ed a prova di questa artificialità sta il fatto che il
contrabbando imperversava anche per il grano interamente monopolizzato per
legge dallo Stato. L’essere passati da questo stadio di eccezione all’imposta
in natura, non significa che, per quanto se ne possa dedurre, il divenire
dell’economia socialista in Russia sia difficile e lento, un passo indietro,
anche se reca con sé la necessità di riconoscere certi diritti alla piccola
industria e di integrare l’economia del paese colle «concessioni» ai
capitalisti esteri. Ma non è qui nostro assunto un tracciato generale dello
sviluppo dell’economia russa; e basterà indicare che in fondo all’esame di
tutto ciò sta il basilare concetto storico della internazionalità della
rivoluzione proletaria, poiché solo la dittatura proletaria instaurata nei
paesi a grande sviluppo capitalistico potrà assicurare un ritmo sicuro al
divenire in senso comunista della economia russa, a cui il generoso
proletariato di quel paese può a pena oggi dare le sue cure dirette dopo
essersi con eroismo incalcolabile prodigato su tutti i fronti della lotta rivoluzionaria
contro i comuni nemici di tutto il proletariato mondiale.
OPERAI E CONTADINI NELLA RIVOLUZIONE PROLETARIA
Tutto quanto abbiamo esposto circa i compiti del
potere proletario, una volta affermatosi, nel campo della produzione agricola,
con qualche riferimento alle esperienze russe, non vuole minimamente essere un «programma»
di politica agraria dello Stato operaio. Abbiamo tenuto per obiettivo il
tracciare sulla base della critica marxista delle realtà economiche, quelle che
sono le «possibilità» economiche che si aprono al potere proletario
nell’agricoltura, eliminando certi errori che sono prodotto di puro
illusionismo pseudo-rivoluzionario o di opportunismo alla caccia di obiezioni
alla lotta rivoluzionaria.
Si trattava di stabilire che cosa è che si può attendere da un immediato intervento della dittatura proletaria nel campo agricolo, e che cosa non si può pretendere se non dicendo corbellerie imperdonabili, traendo dai principii socialisti conclusioni assurde e metafisicamente pensate, o creando ad arte per comodo di polemica richieste irreali che servano a proclamare la inutilità, la impossibilità, il fallimento della rivoluzione a seconda dei casi. Si trattava di stabilire quale è il piano di contatto della inversione dei rapporti di classe che si realizzano nella rivoluzione, cogli strati della popolazione agraria ed i rapporti sociali esistenti nell’agricoltura.
Da questo esame è risultato - sono tutte cose certo non nuove - che solo da un’equivoca e formale applicazione di enunciati non socialisti si può dedurre un programma di socializzazione di tutta l’economia agraria messo al pari di quello relativo alla economia industriale; che nel primo campo lo sviluppo comunista non può seguire parallelamente il secondo. È dunque un assurdo parlare di socializzazione agraria se non per le sole aziende modernamente impiantate ed attrezzate a tipo industriale. La piccola azienda sopravviverà alla rivoluzione e il riflesso di questa su di essa non cesserà di essere grandioso in quanto la libererà dalle strettoie della dominazione del latifondista e dalle altre forme di parassitismo capitalistico.
Non è però detto che quello che è logicamente
possibile attendersi dalla rivoluzione proletaria nel campo agricolo debba in
tutti i casi, ed in un periodo tassativamente caratterizzato da immediatezza,
avere piena esplicazione. Il carattere centrale della rivoluzione resta quello
politico: il sicuro possesso del potere da parte del proletariato e la difesa
di questo da ogni attentato interno ed esterno. Ed in un primo tempo fatalmente
questo compito assorbe le forze proletarie. Nello stesso campo industriale,
come in qualunque altro campo di amministrazione non strettamente aderente alla
produzione nel senso materiale, il programma dello Stato proletario potrà
subire ritardi indefinibili se le circostanze esterne lo imporranno. Non è
possibile fissare a priori a quanta distanza dalla introduzione del controllo
operaio nell’industria dovrà seguire la socializzazione della produzione, come
è difficile dire entro quale periodo lo Stato potrà organizzare la gestione
delle aziende agrarie a tipo industriale, e quante e quali fasi presenterà la
lotta per la spartizione delle terre fra i contadini; di quanto ciò dilazionerà
una organizzazione razionale dell’alimentazione pubblica. Tanto più questa
aleatorietà si verificherà nell’agricoltura, essendo il processo per mille
ragioni meno facilmente controllabile dallo Stato proletario e dai suoi organi
direttivi.
Tutto dipenderà da rapporti di forze che nel corso
della rivoluzione si porranno in evidenza tra proletariato urbano e masse
contadine, a seconda soprattutto della economia del paese.
Il problema sarà molto meno scabroso nell’Europa
occidentale ed in genere nei paesi a sviluppo capitalistico avanzato che non
sia stato nella Russia. Anzitutto in questi paesi una estensione molto maggiore
di terra sarà in condizioni di esercizio tali da poter essere gestita
statalmente; lo sviluppo industriale e la sua prosperità consentiranno più
rapidamente di organizzare i nuovi rapporti coi piccoli contadini; e più forte
sarà la forza politica e militare del proletariato urbano, classe dirigente
della rivoluzione.
Lo Stato rivoluzionario, diretto dal partito
comunista, regolerà su tali criteri i suoi rapporti coi contadini e le sue
misure agrarie e giudicherà a qual punto esse possono essere successivamente
spinte; comincerà col lasciare neutrali certi strati della popolazione agraria
fino a che non si avrà la certezza di poter garantire, con forze effettive, le
misure di intervento nei loro diritti antichi. È a questa stregua che vanno
considerate le Tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale sulla questione
agraria; esse appaiono a molti troppo prudenziali, in quanto dicono del
contegno da tenere coi contadini medi e ricchi; ma ciò non autorizza che i
peggiori ignoranti dell’opportunismo a immaginarle compilate dando di frego
alla dottrina marxista per far parlare la reale convenienza politica.
L’impostazione teorica delle concezioni
dell’Internazionale comunista circa la questione agraria straccia semplicemente
quei pregiudizi antimarxisti che in questo scritto ci siamo sforzati
modestamente di combattere. Il resto sono conclusioni tratte da considerazioni
di rapporti di forze tra il potere proletario e i contadini, nel giudicare
della misura dei provvedimenti da attuare successivamente, secondo la
possibilità di poter lasciare passare tra i nemici strati più considerevoli
della popolazione rurale, o doverli per necessità tenere neutrali.
Tutto ciò che si può osservare alle tesi agrarie è che, dettate dalla esperienza russa, appaiono come tesi internazionali troppo moderate, nel senso che nei paesi industriali la lotta contro il ricco e il medio contadino potrà cominciare più presto. L’opportunista invece immagina forse che occorre cominciare a dichiarare la guerra al piccolo contadino, per assicurare la vittoria di un vero capitalismo agrario!
L’importante è assodare che non solo non è incompatibile col regime del potere proletario la esistenza di piccole aziende agrarie sorte dalla sconfitta del latifondismo agrario, ma anche che soltanto parallelamente alla rivoluzione operaia dei centri urbani si può emancipare il contadino e gettare le basi dell’ulteriore sviluppo razionale dello sfruttamento della terra.
Tutte le considerazioni di rallentamento nelle misure strettamente economiche che il potere proletario prenderà non possono essere che a titolo di basso sofisma invocate per conchiuderne obiezioni al prospetto generale del moto rivoluzionario come i comunisti lo tratteggiano; non contraddicono, anzi confermano la necessità che il primo atto della rivoluzione sia il rovesciamento del potere borghese e la proclamazione della dittatura proletaria.
Il minimo, il più semplice di quegli atti di intervento nei rapporti attuali dell’economia di cui siamo stati costretti ad occuparci, è un atto «illegale» che infrange e viola i cardini del diritto borghese, il che vuol dire che non può essere «consumato» se non è infranto il meccanismo di difesa «costituzionale» della borghesia, il suo Stato.
Di quei provvedimenti si possono fare, immaginando
loro attore lo Stato democratico attuale, parodie ridicole, che si
risolverebbero solo in effetti controrivoluzionari. Per quanto possa, specie
nelle difficili situazioni di cui quella russa è un saggio, presentarsi
complesso, difficile, intermittente magari il cammino dalla economia
capitalista a quella comunista, resta indiscusso che il passaggio del potere
dalla classe che il capitalismo difende a quella che sola può del comunismo
essere artefice, è il pegno indivisibile di una lotta senza quartiere in cui
prevarrà chi avrà più forza e che non offre altra soluzione che la vittoria
integrale dell’uno o dell’altro dei contendenti: le misure difficili e sottili
che il potere proletario dovrà sminuzzare nella sua opera colossale e diuturna
non tolgono nulla alla nettezza stridente del dilemma storico: o la dittatura
della borghesia o la dittatura del proletariato, che non può essere eluso da
soluzioni intermedie.
LO SVILUPPO DELL’ECONOMIA AGRARIA DOPO LA RIVOLUZIONE PROLETARIA
Quanto abbiamo fin qui esposto si riferisce al
compito del proletariato vincitore nella lotta politica rivoluzionaria dinanzi
ai problemi della economia agraria, ai fatti che accompagneranno nelle campagne
l’avvento al potere del proletariato industriale urbano, nella fase immediatamente
successiva alla instaurazione del nuovo regime. Diremo ora brevissimamente
delle prospettive di ulteriore sviluppo della economia agraria nel lungo periodo
di graduale trapasso dal regime economico capitalistico ad un assetto che
veramente possa definirsi comunistico, e ciò soprattutto per ribattere una
possibile obiezione secondo la quale si potrebbe revocare in dubbio che lo
stato di cose che abbiamo tratteggiato quale logica conseguenza della
rivoluzione, contenga le condizioni che assicurano il suo evolversi ulteriore
in senso comunista, e prospettare la eventualità di altre lotte di classi e
fasi rivoluzionarie prima di poter passare al comunismo anche nel campo della
produzione agraria.
Bisogna rilevare che se non si giungesse al comunismo agrario, in nessun senso si potrebbe dire di essere giunti al comunismo. Tutte le altre attività della vita sociale, anche quelle che superano il senso materiale della parola «produzione» sono strettamente legate alle sorti della economia agraria da cui dipende l’alimentazione collettiva e la fornitura di prodotti indispensabili all’industria, ai pubblici servizi, a tutte le istituzioni collettive.
Il principio comunista di somministrare a tutti quanto loro occorre su un piano indipendente dalla loro prestazione di lavoro utile per la collettività, oltre ad esigere una serie di condizioni che solo una lunga evoluzione potrà assicurare (floridità economica, sviluppo della scienza e della tecnica, elevamento sistematico dei costumi ed eliminazione di tutte le tare fisiologiche e spirituali, ecc.) non è concepibile se non integralmente applicato a tutta la sfera delle attività produttive, principalissima tra le quali è l’agricoltura.
Al comunismo economico si arriverà attraverso fasi intermedie, raggiungendo prima un regime di rapporti sociali che può definirsi «socialismo» quando alla distinzione si dia un senso economico e non la si confonda colla distinzione politica che esiste nel seno del movimento proletario internazionale.
Il socialismo supera lo sfruttamento capitalistico e l’autonomia delle aziende, ma raggiunge una forma di compenso del lavoro che si avvicina ancora al salariato, se pure oltre al compensare ciascuno del suo lavoro ed in ragione di esso, senza detrarne la parte che andava a formare il plusvalore capitalistico ossia il profitto del padrone, lo Stato proletario si assume di provvedere a coloro che a giusta ragione non lavorano (bimbi, madri, vecchi, malati, disoccupati senza loro colpa).
Nel socialismo è già assicurata però la disponibilità collettiva dei prodotti del lavoro, soppresso il libero commercio e sostituito dalla distribuzione statale. I generi si acquistano ancora in cambio di moneta o di buoni di lavoro non convertibili in acquisto di capitali (strumenti di lavoro).
Basta questo per intendere che il regime di
economia agraria che succede alla instaurazione della dittatura proletaria,
anche dopo il periodo iniziale di assestamento, sarà un regime spurio, non
ancora socialista; un regime che Lenin chiama di «piccolo capitalismo». Solo
per le grandi aziende industrializzate si inizierà un socialismo agricolo,
creandosi verso i loro addetti un sistema di somministrazione dei generi di
consumo analogo a quello che funzionerà per i lavoratori della industria
socializzata. Ma per le piccole aziende uscite dalla ripartizione di terra alle
famiglie della popolazione rurale attraverso il processo di cui nei capitoli
precedenti abbiamo trattato, vi sarà una parziale disponibilità di prodotto da
parte del gerente dell’azienda. Vi sarà quindi una rete superstite di piccolo
commercio per i prodotti della terra che in una prima fase si incrocerà coi
residui di un libero commercio dei prodotti della piccola produzione artigiana
e manifatturiera (industrie rudimentali esistenti nelle zone agricole).
Il prodotto della piccola azienda si considererà diviso in tre parti: 1. allo Stato («imposta alimentare» russa); 2. alla famiglia contadina per il proprio consumo; 3. a disposizione dell’azienda per la vendita libera.
Una prima fase di economia agraria sarà dunque
caratterizzata da queste tre forme di destinazione del prodotto. Non è
possibile nemmeno in questa prima fase dire che l’azienda funziona come una azienda
capitalistica. Tanto avverrebbe se il ricavato della vendita della terza quota
di prodotto (in moneta o certificati dello Stato proletario) fosse convertibile
in acquisto di terra, in modo da consentire l’allargamento dell’azienda al di
là del limite della capacità di lavoro della famiglia a cui è affidata,
conseguendone l’utilizzazione di lavoro altrui dietro salario, caratteristica
del capitalismo. Lo Stato proletario, come dicemmo, demolendo per sempre il
principio giuridico del possesso privato della terra, ne avocherà a sé la
ripartizione, che non sarà più funzione privata contrattuale, ma funzione
collettiva. La compravendita della terra sarà soppressa; e perciò il sistema
non potrà dar luogo ad una trasformazione analoga a quella che dall’artigianato
conduceva alla grande industria, attraverso il fatto che un artigiano che per
possesso di segreti tecnici o altra ragione venisse a guadagnare più degli
altri, acquistava ed inglobava le loro aziende divenendo industriale e vivendo
del prodotto del lavoro salariato altrui.
Non certo potrà vietarsi che col denaro di cui
dispone liberamente il contadino acquisti attrezzi agrari, bestiame, ecc.
almeno nei primi tempi, e con dati interventi limitativi dello Stato,
altrimenti sarebbe lo stesso che non lasciargli la terza quota, di cui abbiamo
parlato, a libera disposizione.
Ma questo diverrà possibile in una seconda fase,
di cui veniamo a parlare, e alla quale corrisponde appunto la suddivisione del
prodotto della piccola azienda da non più in tre ma nelle sole due prime quote:
parte da dare allo Stato; parte da consumare dalla famiglia contadina.
Questo sarà possibile quando lo Stato sarà in grado di fornire attraverso i suoi organi distributivi al contadino «tutto» quanto gli può occorrere di prodotti non agricoli o non dati dalla sua azienda. L’evidente condizione del passaggio a questa seconda fase, di semi-socialismo agricolo, è una grande floridità industriale.
Esso sarà fattibile solo allorché il socialismo industriale funzionerà in pieno. Non bisogna dimenticare che per il felice sviluppo di questo è a sua volta indispensabile condizione la intensa produzione agricola, e da ciò si intende come la prima fase di cui abbiamo parlato non mai potrà essere saltata, ma si deve prevedere una sua così completa esplicazione da portare ad un elevatissimo rendimento della terra.
Una terza fase di vero socialismo agrario si avrebbe quando si giungesse a sopprimere anche la seconda quota della ripartizione dei prodotti, quella che rimane al contadino per suo consumo, dando l’intera disposizione del prodotto alla collettività. È evidentissimo che questo sistema è inconciliabile colla piccola azienda, non esistendo affatto la convenienza di ritirare al contadino tutto il prodotto, per ritornargli quanto deve consumare attraverso una indipendente rete di distribuzione, nei cui quadri dovrebbero figurare milioni di piccole aziende. Quindi il socialismo agrario, conclusione che non ci riesce nuova, non lo avremo che quando dalla piccola si sarà passati alla grande azienda.
Ecco il problema, e la possibile obiezione avversaria: è concepibile la trasformazione della piccola nella grande azienda agraria per altra via che per quella capitalistica, ossia quella con l’acquisto di terra da parte del contadino arricchito o dell’imprenditore capitalistico?
Il lettore ricorderà che noi abbiamo già sostenuta la verità della tesi inversa di questa: che cioè tale trasformazione non diverrà mai sistematica nell’ambiente economico del capitalismo, il quale mal si concilia con la evoluzione della tecnica agraria verso la industrializzazione in grande stile.
Tutto ciò riesce invece possibile attraverso il processo che aprirà la rivoluzione sociale. La floridezza industriale che avrà pure in un primo tempo consentito quella «seconda» fase di avvicinamento ad un socialismo agrario (che potremmo definire di inserzione delle piccole aziende rurali nella rete totalmente socialista di distribuzione) sarà il punto d’appoggio per la transizione dalla seconda alla terza fase. Anche dalla prima fase si potrà iniziare il passaggio alla terza fase, inquantoché esempi della conduzione agraria che si generalizzerà nella terza fase si avranno fin dal primo momento nelle grandi aziende agrarie capitalistiche che saranno state socializzate; ed anche prima che sia soppressa la disponibilità dei prodotti della piccola azienda per il libero commercio, si potrà iniziare la aggregazione di piccole aziende in grandi unità produttive industrializzate. Ma questo si renderà possibile su vasta scala, essendo innanzitutto un problema tecnico, solo quando lo sviluppo della produzione industriale sarà divenuto rigoglioso.
Chi e che cosa spingeranno le piccole aziende a fondersi in grandi tenute per adottare nuove risorse tecniche produttive? La volontà illuminata dello Stato proletario e l’interesse della popolazione rurale al tempo stesso, attraverso circostanze nelle quali né ci diffonderemo né sarebbe il caso di farlo.
I contadini intenderanno dall’esempio delle prime
grandi tenute razionali statizzate nelle quali funzioneranno le macchine e
tutti gli altri mezzi moderni di coltura, che ivi si ottiene lo stesso
rendimento e lo stesso tenore di vita dei lavoratori con sforzi, sacrifizi,
rischi, molto minori. Esclusivamente lo Stato (in un certo senso unico
capitalista ed intraprenditore industriale) potrà disporre dell’attrezzaggio e
delle competenze necessarie alla trasformazione della tecnica agraria e questi
mezzi, non per capriccio dello Stato, ma per logica condizione tecnica, saranno
offerti a quei soli contadini che si dichiarino pronti a porre in comune le
loro terre. Potrà darsi che forme somiglianti alla cooperazione agricola, alla
difesa collettiva contro i rischi della produzione, si presentino come
transizione a questa definitiva messa in comune della terra, che equivale
senz’altro alla sua socializzazione.
Qui ci troviamo di fronte ad un vecchio pregiudizio che pone avanti il problema dell’incentivo alla produzione, della molla che agisce sul lavoratore forzandolo ad uscire dall’ozio e a dare il suo contributo alla collettività. Secondo vecchie ubbie borghesi questa molla è l’»interesse», la brama e la prospettiva di «guadagnare» e di arricchire per poter vivere senza lavorare. Togliete queste probabilità e vedrete la produzione arrestarsi, dice il borghese. In realtà egli vede in tal modo il mondo della economia ed i suoi riflessi sulle azioni umane dal suo singolare angolo visuale di classe. Il borghese nel produttore e nel lavoratore non vede l’uomo, ma la «ditta», l’»azienda» col suo libro dell’entrata e dell’uscita. Esso non intende che questi stimoli valgono nell’attuale regime capitalistico, solo per quella minoranza appunto di cui egli medesimo fa parte, e di cui attribuisce la psicologia mercantile a tutta la restante umanità. Egli non concepisce come gli stimoli che guidano l’azione della Ditta «Io & C.» non conducono a prestare opera per la collettività, ma ad assicurarsi l’appropriazione di più che sia possibile del prodotto dell’opera collettiva, attraverso il «lavoro», se per lavoro volesse intendersi anche e soprattutto la speculazione, il bagarinaggio e la frode. In realtà il capitalismo ha creato per la grande maggioranza degli uomini una tale condizione di cose che essi si sobbarcano al lavoro quotidiano non già col miraggio di accumulare danaro o di arricchire, prospettiva matematicamente esclusa, salvo casi eccezionali, ma per sottrarsi allo spettro della fame, della miseria e della morte. È una coercizione vera e propria quella che costringe le masse al lavoro. Questo è tanto vero per il proletario delle grandi moderne aziende che esso da decenni non lotta per divenire come individuo a sua volta padrone e industriale, ma per realizzare come classe la messa in comune dei mezzi produttivi.
È la condizione economico-psicologica del piccolo contadino più simigliante a quella del borghese che a quella del proletario? Qui il punto.
In realtà pesa su di esso una tale incertezza del domani da avvicinarlo d’assai alla situazione del proletario. Naturalmente è per esso più facile concepire una garanzia del suo avvenire come individuo e come famiglia attraverso l’acquisto e il possesso di una zolla di terra, inquantoché appunto è possibile ancora esercire la terra in piccole aziende senza la quasi certezza del fallimento che sovrasta la piccola azienda industriale. Di qui la logica «fame di terra» del contadino, che anzi diviene leva rivoluzionaria appena gli si prospetterà che con la vittoria del proletariato industriale egli possa avere la terra per via più rapida di quella lenta e difficile della acquisizione capitalistica.
La posizione del piccolo proprietario agricolo, mentre certamente non presenta la inconsistenza di quella del lavoratore salariato, è però sotto molti aspetti anch’essa precaria. Il salariato più che preoccuparsi di non farsi frodare sul prodotto del suo lavoro, il che solo l’azione collettiva può fargli raggiungere, deve preoccuparsi di trovare lavoro, di collocare l’opera delle proprie braccia. Il contadino realizza non solo questo, ma anche il possesso dell’intero prodotto delle sue braccia, quando è proprietario di un pezzo di terra. Ma egli ha ancora da difendersi contro le pressioni del fisco, e l’usura capitalista sulla somministrazione di quanto altro gli occorre per la conduzione del suo pezzo di terra.
Nell’ambiente capitalistico il contadino ambisce la disposizione della terra su cui lavora perché questo lo conduce ad un minore sfruttamento del suo lavoro, e non tanto perché l’esercizio della piccola azienda offra probabilità tali di guadagno da acquistare altra terra e divenire un «signore», ossia uno sfruttatore, più che non ne offra la situazione di operaio salariato.
Ma nel regime non più capitalistico determinato dalla rivoluzione il contadino divenuto o rimasto esercente del suo pezzo di terra non avrà più alcuna prospettiva di capitalizzare, e diverrà fautore della proprietà collettiva appena vedrà che questa gli garantirà un rendimento maggiore del suo lavoro, ossia permetterà a parità di vantaggi un minore sacrifizio, tanto più che gli operai delle aziende industrializzate agricole avranno le stesse garanzie contro la disoccupazione, la invalidità ecc. degli altri addetti ad imprese socializzate.
Quel riflesso psicologico per cui il lavoratore agricolo preferisce molte volte di lavorare come un dannato la sua terra anziché compiere un lavoro meno eccessivo sulla terra altrui, deriva dal fatto che la prima situazione gli presenta delle serie garanzie, non di arricchire, ma di poter vivere anche in caso di malattia, di vecchiaia ecc. In un ambiente economico in cui il nullatenente sia assicurato da queste prospettive e socialmente obbligato al lavoro sì, ma non con lo spettro della fame e della morte che atterrisce egualmente chi non lavora perché non vuole e chi non lavora perché non può, cessa la suggestione di divenire un proprietario come che sia e risorge il problema del miglior rendimento del proprio lavoro integrante quello collettivo.
L’incentivo, la spinta (e siamo rimasti nel discutere di queste cose sullo stretto terreno delle determinanti economiche, tacendo delle interferenze politiche, della propaganda, della educazione ecc.) a passare dalla situazione di piccolo esercente di azienda a quella di addetto alle grandi tenute agricole statali saranno assicurati quando lo sviluppo tecnico, che solo il socialismo industriale potrà dare, permetterà di rovesciare nelle campagne una grande parte delle energie della produzione industriale, trasformando su vastissima scala i procedimenti della coltivazione della terra, che oggi, in pieno giganteggiare del capitalismo, ricordano ancora da vicino quelli tramandati dalle più remote letterature.
In tutta questa esposizione abbiamo dovuto tracciare degli schemi per rendere più intelligibili certe argomentazioni. Sia anche una volta chiarito che con questo non abbiamo voluto fare né delle profezie né dei piani programmatici, ma solo prospettare a scopo polemico contro certe storte opinioni le possibilità e le necessità del processo rivoluzionario sanamente inteso, con metodo socialista e marxista.
I fatti, e le fasi che per semplicità abbiamo
esposto, potranno schierarsi nel tempo con proporzioni diverse da quelle che
hanno nel nostro tracciato, o talvolta accavallarsi ed incrociarsi nella
incalcolabile molteplicità delle condizioni sociali di varie regioni. Noi li
abbiamo esposti nella misura e colle considerazioni occorrenti a contrapporre
la nostra modesta trattazione di fondamentali e non certo originali vedute
comuniste, a certe deduzioni formalistiche arrischiate e sballate da
superficiali formulazioni di quello che tanti credono sia il socialismo, come
metodo, assumendosi perfino di difenderlo contro di noi, erigendo,
umoristicamente, contro pretesi «opportunismi» dei comunisti la ridicola loro
incapacità ad intendere - e perciò stesso, fortunatamente, a sabotare - il
cammino grandioso e formidabile della Rivoluzione.
LA TATTICA DEL PARTITO COMUNISTA TRA I LAVORATORI DELLA TERRA
A conclusione della nostra esposizione diremo brevemente di questo grave problema pratico, di cui abbiamo voluto stabilire le indispensabili premesse di principio. È un problema che vediamo porre tutti i giorni nel seno del nostro partito: che cosa dobbiamo dire noi comunisti ai contadini? Come si deve impostare il nostro movimento nelle zone prevalentemente agricole, e dove i rapporti sociali nella agricoltura sono tuttora arretrati?
La risposta a queste domande noi non possiamo né
vogliamo qui darla per quanto dettagliatamente si riferisce alla situazione
agricola italiana, e, meglio, delle varie regioni d’Italia. Per questa ultima
conclusione occorrerebbe premettere uno studio ben altrimenti laborioso della
nostra generica trattazione, sulle condizioni dell’agricoltura del nostro
paese; studio che il partito comunista deve indubbiamente compiere, e per
invogliare al quale i nostri compagni che ne hanno la possibilità, la
competenza e l’esperienza, abbiamo voluto porre a loro disposizione questi
elementi basilari della ricerca.
Anche dunque quanto qui accenneremo ha un valore
generico ed è esposizione necessariamente schematica, riferentesi
all’atteggiamento dei comunisti nei diversi casi di sfruttamento agricolo e di
rapporti sociali ad esso inerenti che abbiamo fin qui considerati come
fondamentali e tipici.
Tra i lavoratori salariati delle grandi aziende
rurali moderne il partito comunista non ha ragione di svolgere altra propaganda
che quella che svolge tra gli operai dell’industria. Dal punto di vista
politico esso prospetterà il programma rivoluzionario della conquista del
potere da parte del proletariato come mezzo per addivenire alla socializzazione
dell’industria e alla soppressione dello sfruttamento dell’intraprenditore sui
salariati. Dal punto di vista sindacale il partito comunista applicherà i suoi
criteri fondamentali, che non sono nemmeno per sogno quelli di contrastare le
agitazioni per il conseguimento di miglioramenti immediati, nelle condizioni di
lavoro, ma di sostenerle ed ove possa dirigerle, facendo sì colla sua
propaganda che i lavoratori addivengano a considerarle non già come fine a sé
stesse, ma quale campo di una prima indispensabile esperienza di classe e di
allenamento all’azione collettiva - dimostrando come i miglioramenti conseguiti
non hanno altro reale valore che quello di mostrare l’utilità dell’azione
solidale dei proletari nell’azione contro il capitalismo, ma non modificano
sostanzialmente i rapporti di sfruttamento capitalistico, né impediscono che in
cento circostanze questi si vengano ad inasprire - conducendo i proletari a
concepire la necessità di una grande lotta politica di tutti i lavoratori,
organizzati in partito di classe per la presa del potere.
Non occorre qui dire di più sull’argomento
generale dei metodi sindacali del partito comunista, sulle loro pratiche
applicazioni nella funzione dei gruppi comunisti di sindacato e di azienda,
sulla tattica da adottare per la lotta entro le organizzazioni sindacali
dirette dai socialdemocratici; basti dire che questi criteri si trasportano
senz’altro nel campo del movimento dei salariati agricoli delle grandi tenute
moderne.
Questi operai giornalieri sono però sempre frammisti
ai salariati, od obbligati ad anno, che lavorano in tenute non aventi quei
caratteri che ne consentiranno la socializzazione, cioè grandi latifondi a
coltura primordiale ma tuttavia non condotti col sistema dell’affitto a piccoli
lotti, o medie aziende in cui la mano d’opera salariata è un complemento della
piccola conduzione da parte di una famiglia contadina agiata. Abbiamo visto
come in questi casi non è da escludere che l’effetto della rivoluzione agraria
sia una trasformazione di questi lavoratori salariati e nullatenenti (tanto più
poi se sono proprietari di piccolissime entità di terra non sufficienti ad
assorbire la loro forza lavoro) in conduttori di piccole aziende agrarie sorte
dalla divisione dei latifondi. Tuttavia noi azzardiamo l’opinione che, fino a
che non ci troviamo dinanzi alla figura tipica del piccolo contadino (colono o
mezzadro) sia bene esercitare la massima propaganda in favore della gestione
collettiva, sia pure non potendo «annunziare» la socializzazione vera e propria
di tali aziende dopo la rivoluzione, da parte dello Stato proletario, e
preconizzando forme di gestione cooperativa almeno di una parte della terra che
trovasi in tali condizioni.
Ad ogni modo evidenti ragioni tattiche conducono a far entrare questi lavoratori nelle stesse organizzazioni sindacali (leghe di braccianti) di quelli delle grandi aziende tipiche. È anche una necessità pratica disciplinare cogli stessi concordati (in massima) le loro condizioni di lavoro, se pure il problema dei rapporti tra salariati e contadini medi sia delicatissimo, e sia necessario condurre di pari passo le concessioni del contadino al bracciante con quelle che si devono ottenere dal proprietario nei rapporti del colono o mezzadro.
Passando a questo altro tipo fondamentale di
lavoratore della terra, occorre dire senza ambagi che una propaganda
rivoluzionaria può e deve essere fatta in mezzo ai piccoli contadini
presentando loro la prospettiva che la vittoria politica del proletariato
arrecherà con sé come immediato provvedimento la soppressione dell’affitto e di
ogni corresponsione in denaro o in natura al proprietario della terra che non
ne sia il diretto esercente, cosicché il colono o mezzadro attuale non dovrà
riconoscere più alcun diritto nel proprietario che gli ha affidato in
coltivazione il suo terreno a date condizioni, equivalenti ad uno sfruttamento
del suo lavoro. Si chiami ciò spartizione della terra, parcellazione del
latifondo o abolizione della «grande proprietà» o che diavolo si vuole, è certo
che occorre prospettarlo come leva potentissima di agitazione rivoluzionaria
tra i contadini, per conquistare le loro simpatie ed il loro effettivo concorso
alla lotta rivoluzionaria del proletariato industriale ed urbano. D’altra parte
abbiamo dato una esauriente e classica (appunto perché non nostro originale
ritrovato) dimostrazione che tutto ciò si adatta senza fare una grinza sulle
concezioni del socialismo marxista, checché strillino certi presuntuosi
ignorantelli monopolizzatori del marxismo o delegati dalla borghesia alla
castrazione di esso.
Non si dovrà trascurare di svolgere una accorta
propaganda per dimostrare come il contadino liberato dallo sfruttamento
padronale dovrà contribuire con una congrua parte del prodotto della terra che
gli resterà a disposizione alle necessità dello Stato proletario, della forza
che lo avrà liberato e che difenderà contro la reazione padronale i suoi nuovi
diritti.
Nel campo sindacale, ossia degli interessi
immediati, è ovvio che analogamente a quanto si fa per i lavoratori salariati,
dovranno essere sostenute e provocate le agitazioni dei contadini contro i
proprietari, per ottenere migliori patti colonici, ossia per diminuire
l’asprezza del loro sfruttamento, svolgendo anche qui la dimostrazione che
l’ambiente delle istituzioni capitalistiche è tale da non consentire una sicura
prosperità della piccola azienda contadina, finché il diritto stesso del
proprietario non verrà assalito ed abrogato, il che solo con il trionfo della
rivoluzione verrà realizzato.
Le organizzazioni sindacali dei contadini (coloni
e mezzadri) dovranno essere distinte da quelle dei braccianti, ma per quanto
possibile, e soprattutto quando nel loro campo si sia affermato il partito
comunista, procedere d’accordo con le prime nella lotta contro i proprietari
terrieri. Questo naturalmente diviene sempre più difficile man mano che il
contadino che consideriamo esercisce una maggiore estensione di terra, impiega
molti salariati, sfrutta il loro lavoro e tende ad entrare nella limitatissima
categoria di quei privilegiati che dallo sfruttamento appunto traggono tale
guadagno da potere emanciparsi dallo sfruttamento che il proprietario imponeva
loro, per la via dell’acquisto della terra. Costui è senza dubbio un nemico; né
è possibile tracciare in principio la linea che divide gli amici dai nemici,
trattandosi piuttosto di un notevole strato di elementi neutri. Siamo qui
pienamente nel campo tattico e non potremmo proseguire l’indagine che prendendo
ad esaminare i molteplici casi concreti che nella pratica azione dovranno
essere affrontati e risolti.
Viene quindi un’altra categoria, la più delicata
di tutte indubbiamente: quella dei piccoli proprietari. Qui bisogna lottare
contro il pregiudizio, abilmente sfruttato dai reazionari, che la rivoluzione «toglierà»
loro la terra, e dimostrare invece che la rivoluzione migliorerà anche le loro
condizioni.
Bisogna chiaramente spiegare il programma
comunista come noi l’abbiamo accennato parlando delle piccole aziende. Ad ogni
famiglia contadina sarà lasciata tanta terra da poter lavorare fino ad
assorbimento della sua capacità di produzione; le aziende troppo piccole
potranno venire integrate a spese dei latifondi e delle aziende dei contadini
ricchi, e per un primo periodo le stesse aziende che oltrepassano di una misura
non esagerata la potenzialità lavorativa della famiglia che le possiede non
temeranno nessuna limitazione.
Occorrerà con una acconcia propaganda contrapporre
questo equo criterio di assegnazione della terra, alle condizioni create al
piccolo proprietario dalla società attuale, che lo sfrutta in tante forme
attraverso mille speculatori, con le ipoteche, l’usura ecc.; mettendo bene in
evidenza come la rivoluzione casserà tutti i debiti ipotecari e commerciali
della piccola azienda.
Occorrerà, in modo accessibile alla mentalità del
contadino, dimostrare non quello che per lui equivale al calcolo sublime, cioè
il passaggio di là da venire dal piccolo esercizio agrario alla
collettivizzazione della terra ed al suo esercizio statale accentrato, ma il
vantaggio che deriverà alla piccola azienda della famiglia rurale, nella quale
non si sfrutta, ma si lavora in condizioni talvolta penosissime, dal trovarsi
anziché nell’ambiente del capitalismo privato industriale e commerciale, in quello
rivoluzionario della industria dei pubblici servizi, della pubblica
amministrazione accentrate nelle mani del proletariato.
Un problema altamente interessante è quello della «organizzazione
dei piccoli proprietari». Contro chi essi hanno da lottare sul terreno
sindacale, una volta che la loro posizione giuridica li eleva alla pomposa
situazione di arbitri assoluti delle condizioni del loro lavoro? In realtà essi
non hanno patti di lavoro da stipulare con chicchessia, ma questo appunto può
dare al loro movimento un alito extrasindacale, in quanto esso tende alla
conquista violenta della terra dei latifondisti parassiti, alla difesa dalle
estorsioni dell’incettatore usuraio, o dell’occhiuto amministratore del piccolo
paese agricolo. Appunto perciò una organizzazione di piccoli proprietari, se
indubbiamente irta di difficoltà, può condurre a dare una base interessante ad
agitazioni prettamente rivoluzionarie e di più diretto sbocco nell’aperta lotta
politica.
In genere i contadini, di tutte le categorie, hanno
una limitatissima iniziazione alle funzioni della vita politica e
amministrativa. È facilissimo creare un’altra leva rivoluzionaria, mostrando ad
essi la inanità del sistema democratico borghese, come garanzia dei loro
diritti di «cittadini» dei mille soprusi dei «signori» locali padroni dei
municipi e sostenuti dal governo borghese e da tutte le forme dell’autorità.
Questa campagna deve essere condotta su di un piano «massimalista» e non, come
finora si è fatto nel Mezzogiorno d’Italia, lasciando intendere che a questo
stato di cose si possa apportare un rimedio coll’azione legalitaria ed
elettorale di un partito proletario, colla conquista delle amministrazioni,
colla «moralizzazione» del metodo di gestire e simili. Si può e si deve invece
inasprire il contrasto tra gli interessi dei contadini e lo Stato borghese, che
ad essi più che mai appare come il nemico, come quello che effettivamente è, il
difensore degli interessi dei ricchi, che meno facilmente perverrà ad
ingannarli col miraggio democratico, perché una lunga amara esperienza, ad essi
contadini, ha insegnato che quella macchina è assolutamente estranea ed
inaccessibile ad essi.
Non potevamo, con questo scritto preliminare,
pretendere di giungere a più diffuse conclusioni. Un compito vastissimo sta, in
questo campo, innanzi al nostro partito, che deve ad ogni costo sollevarsi dal
deplorevole empirismo e dalla piatta insufficienza dimostrate finora in materia
dal movimento socialista italiano.
Bisogna studiare, per combattere i pregiudizi, e
lavorare per suscitare razionalmente le forze rivoluzionarie che la «campagna»
può esprimere dal suo seno. Il nostro paese, che la sua situazione geografica
incunea in modo suggestivo nel cuore del mondo capitalistico incalzato
dappresso dall’incendio della rivoluzione, è un paese agricolo. La sua
popolazione lavoratrice agricola, secondo una vecchia convinzione di chi
scrive, anche nelle zone che il socialismo tradizionale, caricatura appena
passabile delle fisime democratiche, preoccupato della educazione, della
coltura, della lotta contro l’»oscurantismo» e soprattutto del conteggio dei
voti, ha condannato al suo ridicolo disprezzo, nasconde sotto l’apparenza del
suo sonno medioevale vergini energie rivoluzionarie che riservano imprevedute
sorprese.
Deponga il proletariato urbano il disprezzo per la
inferiorità del lavoratore agricolo, dettatogli dall’opportunismo dei suoi
guidatori riformisti che gli insegnano ad essere tanto civile ed educato
da risparmiare l’edifizio di infamie del regime borghese dalla santa rabbia
rivoluzionaria; stenda la mano ai suoi fratelli sfruttati delle campagne, che
questi, domani, si leveranno insieme con esso, e forse con minore coscienza, ma
con più terribile slancio muoveranno alla irresistibile offensiva punitrice
degli oppressori, redentrice degli oppressi.
Partito comunista internazionale
www.pcint.org